Ravenna. "Ecco perchè deve essere confermato l'ergastolo a Cagnoni"

Ravenna

RAVENNA. Centosettantasette pagine per confermare l’ergastolo a Matteo Cagnoni. Ma con una novità rispetto alla granitica condanna comminata dalla Corte d’assise di Ravenna il 22 giugno di un anno fa, facendo giustizia sull’omicidio di Giulia Ballestri: per i giudici bolognesi il dermatologo 54enne era lucido e nelle sue piene facoltà quando il 16 settembre 2016 mise in pratica un piano premeditato per uccidere la moglie 39enne dalla quale si stava separando, massacrandola nella villa disabitata di famiglia in via Padre Genocchi. Le motivazioni della sentenza pronunciata il 26 settembre scorso dal presidente della Corte d’assise d’appello Orazio Pescatore (a latere il giudice relatore Luisa del Bianco) sono state depositate a 34 giorni dalla discussione, riservando oltre una ventina di pagine per smontare il fulcro della nuova strategia difensiva già anticipata dagli avvocati Giovanni Trombini e Francesco Dalaiti, poi approfondita in appello dall’avvocato Gabriele Bordoni, a cui l’imputato ha passato il testimone. Vale a dire l’ipotesi di una presunta incapacità di intendere e volere parziale al momento dei fatti, dovuta a un grave disturbo della personalità. Argomentata con due motivi: il comportamento apparentemente illogico tenuto da Cagnoni prima, durante e dopo il fatto, e le consulenze sul suo stato mentale.

No alla perizia psichiatrica
Su questi presupposti la difesa aveva chiesto alla Corte bolognese di disporre una perizia psichiatrica sull’imputato, prima di procedere con la discussione. Istanza respinta ravvisando che «non vi sia ragione alcuna» per «dubitare della piena capacità dello stesso nel momento in cui pose in essere il fatto delittuoso». Una conclusione formulata dopo avere valutato il compendio probatorio trattato in primo grado; in particolare la deposizione dello psicologo Gianni Tadolini, terapeuta che seguì Cagnoni per più di 10 anni prima del matrimonio, delineandone la personalità narcisistica e vendicativa, ma non affetta da disturbi psichici. Poi quelle dei consulenti della difesa, il professor Stefano Ferracuti e il dottor Giovanni Ciraso. Infine i diari clinici del carcere, dai quali per il legale sarebbero emerse le prove di una seminfermità mentale.

«Dissociato da sé»
Sono proprio i referti delle cartelle cliniche aggiornate nei mesi di detenzione, prima e dopo la sentenza di primo grado a meritare ampia riflessione nelle motivazioni. È l’aprile del 2018 quando Cagnoni riferisce al medico del carcere: “Mi vedo come fuori dal mio corpo che osservo la scena”. Episodio verificatosi - dice all’epoca - tre volte. Il dottore così scrive: “Derealizzazione con sensazione di vedere il proprio io corporeo a distanza da sè, fenomeno della durata di pochi minuti, a volte di pochi secondi, e del quale è perfettamente cosciente”. Ci sono attacchi di panico, eppure - continua lo specialista - il detenuto è “lucido, mnesico, orientato e collaborante. Non emergono franchi deliri e dispercezioni né idee autolesive”, per poi riferire che “questi fenomeni dissociativi sarebbero comparsi da circa due mesi”. Così i giudici obbiettano: «Nessun episodio dissociativo del genere (…) è mai stato collocato da Cagnoni all’epoca del delitto», e neppure quando decise di fuggire dalla villa del padre, alla vista dei Falchi della Squadra Mobile di Firenze, ancora ignaro che a Ravenna la polizia aveva appena scoperto il cadavere di Giulia. Da qui la conclusione del collegio bolognese, «che nessun elemento concreto acquisito a questo processo (…) porta a far sospettare l’esistenza in Cagnoni di una psicopatia tale da aver determinato una compromissione della coscienza nel momento in cui ha commesso il fatto».

Le parole di Giulia
Ribadite in toto le valutazioni scritte in primo grado dal presidente Corrado Schiaretti (a latere c’era il giudice Andrea Galanti) nel ricostruire un quadro indiziario «talmente grave e univoco che non possono sussistere di fatto reali dubbi sulla prova piena della responsabilità dell’imputato». Un omicidio commesso con le aggravanti di premeditazione, crudeltà e di avere agito nei confronti del coniuge. Le paure di Giulia riemergono nella sentenza attraverso le sue stesse parole, scritte all’uomo con il quale sperava di ricominciare una nuova vita una volta superata la separazione con il marito. “Mi uccide”, “lui dice che lo ho disonorato”, scrive a Stefano Bezzi la mattina del 15 agosto. Lui le risponde “Io ti porto via”, ma lei manifesta il timore più grande, “se tu mi porti via perdo i miei figli”. Tra le tante prove che tornano, c’è quella ribattezzata come “firma” del delitto, forse una delle tante variabili a cui Cagnoni non aveva pensato: le telecamere di sorveglianza della villa paterna, sotto le quali ha smaltito oggetti provenienti dalla casa della mattanza; il tronco usato per fracassare la testa della moglie, ricondotto dall’accertamento botanico ai pini della casa al mare di Marina di Ravenna. L’allarme della villa disabitata, riattivato come d’abitudine, dopo l’omicidio. Un’ultima menzione - in realtà trattata in apertura della sentenza - va alle parti civili già ammesse in primo grado: i genitori, il fratello e i figli di Giulia, tutelati dall’avvocato Giovanni Scudellari, poi il comune di Ravenna, Linea Rosa, Unione delle donne in Italia, e Dalla parte dei minori, costituitesi con i legali Enrico Baldrati, Cristina Magnani, Sonia Lama e Antonella Monteleone. A tutte sono state confermate le provvisionali.

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