Ravenna, cold case Minguzzi: “Il movente resta segreto”

E’ una costellazione di interrogativi quella che resta sullo sfondo del “Caso Minguzzi”. Bollata come «inaffidabile» la fidanzata della vittima, Sabrina Ravaglia, una delle testimoni chiave sentita più volte nel processo, nelle ultime ore di vita del 21enne affiorano personaggi il cui ruolo non è mai stato delineato nel corso del dibattimento.

La cena prima del sequestro

Una conversazione tra la Ravaglia e tale “Fabio”, chiamato confidenzialmente “Fido” sposta l’attenzione su un’uscita con Pier Paolo e un misterioso “amico meridionale” che i due avrebbero dovuto incontrare. Telefonata tuttavia alla quale il ragazzo sembra «frettoloso e insofferente», come per paura di essere intercettato. “Fabio” è anche il nome dell’amico con il quale il 21enne – secondo quanto riferito dalla madre, Rosanna Liverani – sarebbe uscito la sera del 20 aprile 1987. Serata – è noto – alla quale partecipò anche la Ravaglia, la quale sostiene di essere stata riaccompagnata a casa (di ritorno dal bowling di Imola) da Minguzzi.

Si arriva così a un’ulteriore telefonata rimasta finora inedita, che chiude le pagine della sentenza di assoluzione; quella tra la Ravaglia e tale “Luigi”, nella quale la ragazza tentò di conoscere gli spostamenti del fidanzato. Si tratterebbe di una cena collocata tra il 18 e il 20 aprile. Il 21enne, rivelava l’interlocutore alla giovane, era arrivato alle 23.15, “ci aveva l’ansia di mangiare… abbiamo aspettato che finisse, e a mezzanotte abbiam preso su e siamo andati al Babylon”. Una cena tardiva, dunque, che il giudice mette in relazione con l’autopsia sul cadavere rinvenuto il 1 maggio, dalla quale risulta che «Pier Paolo consumò l’ultimo pasto 3/4 ore prima della morte».

Aspetti emersi anche durante le indagini “parallele” avviate da carabiniere sotto copertura presentatosi alla Ravaglia come “Brigadiere Ciccio” e identificato in Vittorio Di Santo, all’epoca investigatore dell’Anticrimine di Bologna, poi passato ai servizi segreti. E’ colui che mise in moto «una macchina investigativa parallela», facendo registrare a Sabrina le telefonate del sedicente “Alex”, la cui deposizione durante il processo non ha chiarito «come mai l’Anticrimine si preoccupò di avere cognizione diretta al di fuori dei normali canali investigativi, solo delle conversazioni della Ravaglia». Misteri rimasti insoluti, che si sommano portando alla conclusione della sentenza: «Purtroppo – scrive il giudice Michele Leoni – l’omicidio di Pier Paolo Minguzzi resta tutt’ora un mistero. Anzi, un segreto».

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