Ravenna: «Anticorpi spariti in 2 mesi dopo 60 giorni da contagiato»

Ravenna

RAVENNA. Ostaggio del virus per due mesi, confinato in una stanza 24 ore su 24 per il timore di poter contagiare i familiari. Un isolamento assoluto, un lockdown nel lockdown quello di un 50enne ravennate durato da metà marzo a metà maggio quando, dopo ben sei tamponi positivi, ha avuto la conferma di aver superato il covid-19. Malattia di cui sembra però essersi persa ogni traccia immunitaria dopo soli 58 giorni: quando per lavoro si è sottoposto non a uno ma a due test sierologici in momenti diversi, entrambi gli screening hanno offerto lo stesso risultato. L’assenza di anticorpi. Segno che la protezione immunitaria una volta guariti non offre un orizzonte temporale a lungo termine; il che apre scenari poco confortanti sulla copertura che anche un vaccino potrebbe garantire e sulla possibilità di arginare la circolazione del virus.

Partiamo dalla situazione attuale. Come sta?
«Bene. Devo dire che nella sfortuna sono stato fortunato rispetto ad altri. Ho avuto tutto sommato sintomi leggeri, anche se ancora adesso sento di non aver recuperato appieno gusto e olfatto».

Quando si è ammalato?
«I primi sintomi sono comparsi il 18 marzo. Il giorno prima ero rientrato da un viaggio di lavoro all’estero, può immaginare le difficoltà con i voli, ho dovuto fare cinque scali prima di arrivare a Bologna. Tra cancellazioni e chiusure temevo di non riuscire a tornare a Ravenna».

C’è riuscito appena in tempo
«Ho iniziato ad accusare una tosse stizzosa. Una tossina che mi sono portato dietro tutto il giorno, sempre più insistente, che di notte ha lasciato spazio a una febbricola per un paio di giorni con valori oscillanti tra i 37,5 e i 38,2 come picco massimo. A seguire un mal di schiena intenso, sotto al collo in mezzo alle scapole. Non stavo da nessuna parte, riuscivo a dormire solo con la tachipirina. E anche in quel caso, il dolore, così come è comparso, dopo due giorni è sparito. Poi la perdita di gusto e olfatto, quella che personalmente è stata la sensazione più particolare, che a differenza di tosse, febbre e mal di schiena non avevo mai provato prima. La fase più intensa è durata una settimana, non sentivo nulla. Se mi avessero bendato e fatto sentire un cucchiaio di maionese e uno di nutella sarebbe stata la stessa cosa. A poco a poco la situazione è migliorata ma ancora adesso sento di non aver recuperato appieno la sensibilità nel cogliere odori e sapori».

A quel punto cosa ha fatto?
«Ero già in quarantena cautelativa essendo tornato dall’estero e già dopo i primi sintomi avevo nuovamente contattato il numero dell’Ausl per informare le autorità sanitarie dell’evolversi della situazione. Mi hanno detto che sarebbe passato un operatore a farmi il tampone raccomandandosi, nel caso fossero insorte nel frattempo difficoltà respiratorie, di chiamare subito un’ambulanza per evitare che il quadro clinico potesse peggiorare. Dopo una decina di giorni, d’altronde era il periodo più critico dell’emergenza, mi hanno fatto il test che ha confermato quelli che erano i sospetti. Ero positivo al virus. Cosa che onestamente in quel momento è stato tutto tranne che una sorpresa».

In famiglia ci sono stati altri contagi?
«Per fortuna no, anche se ovviamente quello era il timore più grande. Sin dai primi sintomi ho cercato di fare attenzione, ho indossato la mascherina sempre, ho dormito in stanza da solo. Poi all’esito del tampone mi sono chiuso in mansarda».

La sua “prigione” per due mesi
«È stato un periodo decisamente noioso e non senza qualche preoccupazione. Pur pensando di avere avuto la fortuna di aver contratto il virus in forma lieve, sentendo i bollettini quotidiani e il numero di morti, ogni tanto, soprattutto alla sera, mi domandavo: “non è che stanotte il virus diventa più aggressivo e la situazione si aggrava?”. E poi c’era sempre l’ansia di poter far male agli altri, di poter contagiare i familiari, anche solo nel lasciare il vassoio col cibo fuori dalla porta. Sono tanti i pensieri che passano per la testa in certe situazioni».

Qual è stato il momento più duro?
«Il giorno del compleanno di mia figlia, che ho dovuto festeggiare salutandola tramite skype io da un lato della porta e lei dall’altro. Perché anche se mi sentivo bene e non avevo più sintomi il virus era ancora dentro di me. Pensavo di aver superato la malattia quando ho iniziato a sentire nuovamente i sapori, ma il tampone chiesto dal medico è stato una doccia gelata. Il referto diceva che ero ancora positivo».

E purtroppo non è stato l’unico.
«Da quel momento in poi ho fatto un tampone alla settimana. È trascorso un altro mese sempre con lo stesso esito. Poi finalmente il primo responso negativo. Entro 48 ore mi aspettava il tampone che avrebbe dovuto certificare la sieroconversione. Sono stati momenti lunghissimi, con il timore che potesse accadere quello che leggevo era successo ad alcuni altri, cioè che la controprova risultasse positiva. Invece per fortuna è andata bene. Era il 15 maggio; il giorno dopo via mail ho ricevuto il referto che certificava la mia guarigione».

Cosa ha fatto dopo?
«Mi sono comportato normalmente, continuando a usare sempre le precauzioni e la mascherina, senza mai pensare che, essendo immunizzato, non potevo essere una potenziale fonte di contagio per gli altri».

Poi ha scoperto che gli anticorpi erano spariti
«È stata un’altra doccia fredda. Era il 13 luglio, per lavoro dovevo recarmi all’estero e mi sono sottoposto al test sierologico. Risultato? Valori negativi, sia le IgG che le IgM. In seguito ne ho fatto un altro e l’esito è stato identico. Dopo appena due mesi, cosa che mi ha spiazzato. Ironia della sorte, proprio in quei giorni ho letto un articolo che parlava di una protezione immunitaria limitata nel tempo. Non sono né un medico né un virologo quindi non so se posso essere immune per altri motivi al virus, lo spero, finora non l’ho più ripreso. E continuo a muovermi con la massima cautela. Al rientro da un’altra trasferta di lavoro nei giorni scorsi mi sono sottoposto volontariamente al tampone all’arrivo. Ero negativo. E almeno sono potuto tornare più serenamente a casa con la certezza di non portarmi dietro un altro “souvenir” sgradito».

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