Andando a trovare il padre anziano ricoverato in ospedale, lo aveva trovato di prima mattina nel corridoio del reparto, nudo con solo il pannolone, su una sedia a rotelle. Accanto alle braccia i lacci contenitivi sciolti, segno che nelle ore precedenti il paziente era stato legato. Era accaduto proprio così: nel corso di una nottata turbolenta, l’infermiera lo aveva spostato dalla stanza, assicurandolo caviglie e polsi alla carrozzella, dove aveva trascorso parte della notte senza pigiama. Un’immagine che aveva lasciato perplessa la parente dell’uomo, al punto da dare il via a un’indagine per violenza privata. L’episodio, avvenuto a metà febbraio del 2020 al “Sant’Orsola” di Bologna, è costato il processo a un’infermiera 46enne residente nel ravennate. Le accuse mosse nei suoi confronti sono cadute nei giorni scorsi al termine del processo davanti al tribunale felsineo, dove il giudice l’ha assolta perché “il fatto non costituisce reato”.
Paziente in stato di agitazione
I fatti risalgono al 25 febbraio di tre anni fa. Era notte e l’infermiera era di turno sola nel reparto di Medicina Interna. Tra i pazienti c’era anche un 92enne ricoverato da una decina di giorni, in quelle ore in pieno stato di agitazione. Il personale sanitario ne era informato. Sapevano che qualora l’uomo fosse stato particolarmente alterato e difficile da gestire avrebbero dovuto informare anche i familiari, le figlie in particolare, che avevano assicurato che sarebbero arrivate tempestivamente in caso di necessità. Le due parenti, però, avevano anche firmato l’autorizzazione affinché medici e infermieri utilizzassero metodi contenitivi per evitare che il genitore si facesse male nel corso delle crisi. Così fece l’infermiera, non prima però di aver chiesto il parere del medico, che fu categorico: niente tranquillante, onde evitare – per un mero calcolo di dosaggi e ore tra un’assunzione e l’altra – che la sera successiva l’episodio si ripetesse.
Cartella clinica sotto inchiesta
Per due volte, poco prima delle 5 del mattino dall’ospedale il personale tentò di mettersi in contatto con le figlie. Attendendo il loro arrivo, l’infermiera decise di seguire la disposizione alternativa data dal medico, e cioè “mettere il paziente in sicurezza”, evitando oltretutto che il suo stato di agitazione disturbasse anche il sonno degli altri degenti. La scelta fu dunque quella di spostarlo in sedia a rotelle, con il solo pannolone indosso e con i polsi legati onde evitare il rischio che agitandosi finisse per farsi male. I lacci furono poi slegati. Fu quando una delle due parenti si presentò in ospedale alle 7 del mattino che vedendo il genitore in quelle condizioni chiese subito spiegazioni alla caposala, la quale richiamò l’infermiera appena smontata. Non bastarono le scuse a risparmiarle la querela, giunta 5 mesi dopo a firma del 92enne in persona. Cercando nella cartella clinica era poi emerso durane le indagini che non figurava alcuna disposizione del medico circa lo spostamento dal letto alla carrozzella, circostanza infatti contestata nel capo d’imputazione firmato dal sostituto procuratore Luca Alfredo Davide Venturi.
La strategia difensiva
Contro le accuse, i punti sollevati dalla difesa dell’imputata, assistita dagli avvocati Samuele De Luca e Giorgia Toschi, puntavano su una pluralità di aspetti. A partire dal fatto che lo stesso medico del reparto, sentito come teste, avesse puntualizzato che “l’ambiente ospedaliero non è un tribunale”, riferendosi proprio alle modalità di consenso nell’utilizzo dei metodi di contenzione. Sul punto, poi, i legali avevano insistito sullo “stato di necessità”, dovuto all’esigenza di tutelare l’incolumità dell’anziano, in un contesto in cui una diversa scelta avrebbe potuto configurarsi come omissione di soccorso o abbandono d’incapace. Oltretutto, nemmeno chi era subentrato con il turno delle 7 aveva notato una situazione di abbandono, disagio o danno fisico per il paziente. Il fatto di non avergli fatto indossare il pigiama, infine, sarebbe stato secondo la difesa della donna semmai una mancanza di carattere disciplinare. Alla fine l’infermiera aveva dato le dimissioni un mese dopo i fatti, pur non ricevendo alcun provvedimento disciplinare. Ora è tornata a lavorare a Ravenna, ancor più serena, dopo la recente assoluzione.