Quando gli strumenti di lavoro diventano soggetti dei dipinti

Cultura

RIMINI. È un evento comune che il pittore durante la sua carriera artistica ritragga il suo materiale d’uso o parte di esso, isolato o inserito nel suo ambiente di lavoro. Forse è solo un esercizio professionale in mancanza di ispirazione o di committenza, tuttavia esso sembra poter rispecchiare la personalità dell’artista stesso, vuoi per le caratteristiche della composizione, vuoi per come essa viene rappresentata.
Il conte Andrea Baldini (Rimini 1900-1968), appassionato fotografo e pittore per svago, dipinge con una colorazione intensa e corposa una vivace tavoletta con pennelli, barattoli di vernice e lattine di diluente. È l’esatta copia, ripresa da un punto di visuale lievemente più alto di quella realizzata dall’anarchico Primo Amati (Rimini 1894 – Viserba 1944), un autodidatta pieno di talento, del quale il nobile è allievo, il quale ritrae i suoi strumenti di lavoro anche in altre occasioni.
Sodale dei due, con i quali dipinge spesso in compagnia, il socialista Demos Bonini (Rimini 1915-1991) nella rivisitazione nostalgica dei vecchi appunti “Il mare di Rimini, realizzato nel 1979-80, e ristampato nel 2005 da Trademark Italia di Rimini, dipinge un rilassante intermezzo creativo dedicato ad un angolo del suo tavolo da lavoro, lindo e ordinato, molto costruito, che rispecchia per molti aspetti l’approccio rigorosamente definito del suo stile comunicativo attraverso la pittura.
Un piacevole diversivo estivo sembra essere anche l’atelier di Federico Moroni (Santarcangelo di Romagna 1914-2000), dove la povertà del soggetto non limita minimamente la straordinaria capacità grafica dell’artista capace di concentrarlo, in questo caso, sopra un piatto al centro del piano vuoto. Come loro Mario Valentini (Rimini 1904-1980) rientrato da Roma l’anno prima, nel 1943 dipinge il suo materiale d’uso, ordinatamente disposto e rigorosamente scandito, con colori primari sgargianti, che ricordano i cromatismi tonali della “Scuola Romana” conosciuta in gioventù. Una scelta di colori che impiegherà nella sua produzione futura fino alla conversione all’informale.
Lineare e preciso si conferma Giovanni Cappelli (Cesena 1923-Milano 1994) nella sua maturità artistica milanese. La moderna bomboletta di vernice finale aereosol contrasta con l’umile straccio interpretato con compiaciuta abilità. Diversamente Marcello Muccini (Roma 1926-1978), fra i fondatori del gruppo neorealista di Portonaccio, sodale della scuola cesenate che fa capo ad Alberto Sughi, Luciano Caldari e lo stesso Cappelli, dipinge il suo atelier con fiori e pennelli impiegando la pittura meditata e leggera, ricca di impasti e di luminosità che pratica dopo la durezza del “realismo sociale” del dopoguerra.
Un piccolo tavolo da lavoro al centro dello studio dove regna il disordine di un artista in piena attività produttiva è quello che Ettore Panighi (Massa Lombarda 1917-2007) presenta con il suo espressionismo marcato, dove gli spazi emergono da molteplici punti prospettici e la profondità di campo viene fuori in virtù delle solide e intense sequenze di colore.

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