Poggiali assolta: "Non c'è prova dell'iniezione letale a Montanari"

Lugo

Il movente della vendetta, la personalità discutibile e la statistica sul numero di morti durante i turni all’ospedale non bastano per dimostrare «oltre ogni ragionevole dubbio» che Daniela Poggiali abbia assassinato Massimo Montanari. Non solo: per la Corte d’assise d’appello di Bologna «manca la prova» che la sera del 12 marzo 2014 il paziente 95enne ricoverato all’ospedale di Lugo, «sia deceduto per morte violenta e non per causa naturale».

Questi i passaggi cruciali attraverso i quali la Corte felsinea, motiva l’assoluzione dell’ex infermiera dell’Umberto I, pronunciata lo scorso 25 ottobre ribaltando la condanna a 30 anni comminata in primo grado al termine del rito abbreviato. Le motivazioni della sentenza, ultimo atto vergato dal presidente della corte d’appello felsinea Stefano Valenti, ora in pensione, riguardano però solo una delle due morti in corsia sospette per le quali la 49enne di Giovecca era accusata di omicidio volontario pluriaggravato. Saranno infatti depositate fuori termine le ragioni che hanno portato lo stesso collegio giudicante a ritenere innocente l’ex infermiera anche per il più complesso caso del decesso della 72enne Rosa Calderoni.

Gli indizi

Nel documento redatto dal giudice estensore Paola Passerone vengono confutati gli indizi che per il sostituto procuratore generale Luciana Cicerchia valevano la conferma della condanna di primo grado. Viene bollato come «falso o erroneo» il ricordo della collega della Poggiali, Mimosa Granata. E’ vero che l’infermiera la sostituì nel reparto “D” di Medicina poiché lei era impegnata in un ricovero, offrendosi di fare il giro delle glicemie ai suoi pazienti, tra i quali Montanari. E’ vero che constatò l’improvviso decesso del 95enne. Ma secondo i giudici non è provato che gli fece una puntura letale. Né è stato dimostrato quale sostanza killer sarebbe stata iniettata; il cloruro di potassio ipotizzato dall’accusa avrebbe provocato «forti dolori, mentre Montanari si è spento sena un lamento», e un’overdose di insulina, come ventilato dal giudice di primo grado, avrebbe portato a «uno stato di coma ipoglicemico, non riscontrato».

Gli unici potenziali testimoni oculari, vale a dire i compagni di stanza del defunto, sono a loro volta deceduti nel 2016 e nel 2018. E il loro racconto di quella sera, riportato dalla collega della Poggiali, è ritenuto incompatibile con quello invece riferito dalla vedova di Montanari, nel quale non viene fatta menzione della presunta puntura, in seguito alla quale l’anziano sarebbe morto. Purtroppo «la morte di entrambi i codegenti ha impedito questa necessaria verifica».

Il movente e la personalità

Le minacce nei confronti del defunto ci furono, osserva il giudice. Accadde nel 2009, quando la 49enne si recò nell’azienda di Montanari, datore di lavoro del proprio fidanzato, minacciando di morte lui e la segretaria. Dopo essersi rivolta a quest’ultima dicendole “ scendi giù da quei tacchi, che sei ridicola”, sarebbe andata oltre sentenziando, “ state attenti te e Montanari a non capitarmi tra le mani, perché io vi faccio fuori”. Si tratterebbe, tuttavia, di minacce «risalenti», su «contrasti ormai risolti». Tanto più che il 95enne era stato in cura altre volte al nosocomio lughese, «senza che nulla accadesse».

Quanto alla personalità dell’imputata, emersa tramite le testimonianze delle colleghe e dei medici dell’ “Umberto I”, dai dispetti, dalle «famigerate fotografie» con pose irridenti accanto al cadavere di una paziente, e pure dalle condanne definitive per peculato e furto, «non appare in alcun modo risolutiva circa la condotta delittuosa». In altre parole, essere «pessime colleghe» con «il gusto del macabro e pochi freni morali», e rubare, non significa per forza «essere un’assassina».

L’escalation di morti

Non possono infine supplire «alle gravi carenze probatorie» le statistiche sulla mortalità. Sul punto, si concentra tutto il nucleo finale delle motivazioni, ridimensionando la portata dei dati che il giudice di primo grado aveva definito «agghiaccianti». La corte d’assise bolognese aveva disposto una nuova perizia statistica, incaricando il professor Alessio Farcomeni, docente dell’università di Roma 2 Tor Vergata. L’esito del suo studio aveva evidenziato che durante i turni dell’imputata il tasso di mortalità triplicava, con un picco nell’ultimo semestre. Nonostante ciò, il perito aveva condiviso le obiezioni dei consulenti della difesa (gli avvocati Lorenzo Valgimigli e Gaetano Insolera), che l’analisi non poteva «avere alcun valore di tipo causale». Insomma, concludono i giudici, «per quel che dicono i dati, l’imputata potrebbe non essere mai entrata in quelle stanze dove poi si verificava un decesso». Pertanto, la statistica, «pur sfavorevole» alla Poggiali, «non è in alcun modo in grado di integrare la carenza probatoria» e resta uno di quegli «aspetti di contorno», ritenuti insufficienti per confermare la condanna.

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