Poesia, la nuova raccolta di Stefano Simoncelli

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È uno degli autentici lirici che ha fatto la storia della poesia del Novecento, con Fortini, Caproni, Sereni, Giudici, Raboni, Gatto, Bandini, amici e sodali nella mitica rivista letteraria “Sul porto” che fondò e curò con Benzoni e Valeri, una delle più importanti esperienze poetiche degli anni Settanta. Ora il cesenaticense Stefano Simoncelli ha pubblicato, sempre con Pequod, una nuova raccolta e ha appena ritirato in Svizzera il prestigioso Premio Giorgio Orelli.

“Un barelliere del turno di notte” raccoglie i versi scritti durante il lockdown: in essi ha voluto incarnare il tempo e il luogo della pandemia?

«La pandemia resta sempre sullo sfondo ma non è il tema centrale. A un certo punto ho pensato che il virus avrebbe potuto portarmi via per sempre, come molti altri nel mondo purtroppo, e ho sentito il desiderio di scrivere una specie di testamento in versi nominando persone scomparse che ho amato e ripercorrendo tracce decisive e incancellabili della mia vita. È stato questo l’intento iniziale, la scaletta del testament, spero di esserci riuscito».

Si sente un cronista dal risvolto metafisico e onirico?

«Non mi piacciono le definizioni ma “onirico” credo possa considerarsi un aggettivo appropriato. Non so mai quando scrivo se dormo o sono sveglio, se sogno o sto vivendo. Ci sono poesie che non ricordo di avere scritto: forse ero in trance o me le hanno dettate da un altrove mentre dormivo. Non scherzo».

Le sue liriche compongono un diario di bordo per non perdere la rotta di noi esseri fragili?

«Come esseri umani (o disumani) siamo sempre fragili e allo sbando. Basta un colpo di vento anomalo per farci perdere la rotta. Il virus è stato molto più di un colpo di vento: una burrasca forza 9 in mezzo a una tormenta di neve, e non è ancora finita a quanto sembra. Naturalmente cerchiamo di difenderci manifestando segni di onnipotenza ma nel profondo siamo terribilmente impauriti, disorientati e in balia dell’ignoto».

Il suo canto, scavando nell’intimità e ricercando il ruolo dell’io in relazione a ciò che conta davvero, è salvifico?

«La poesia è salvifica. Ho attraversato lunghi periodi in cui ho rischiato che il dolore per la scomparsa delle persone che più amavo e gravi malattie come l’ictus mi soverchiassero spingendomi in confini sconosciuti dove mi mancava perfino l’aria. È stato in quei punti di dolore immenso e prevaricante che la poesia mi ha preso per mano portandomi non dico in salvo, ma lì vicino, e, piano piano, verso dopo verso, ho ricominciato a respirare. Per me la poesia è fondamentale, ma capisco che non è così per molti, troppi, che non la considerano o la credono inutile. È sempre stato così ma mi auguro ci sia un ripensamento».

Ora più che mai?

«La drammatica fase storica che stiamo attraversando può favorire un avvicinamento alla poesia che, se è vera, contiene in sé molte risposte decisive essendo un canto di vita e mai di morte».

La dedica che fa a inizio libro è «ai pochi intimi»: amici e autori amati. È gratitudine per la luce che offrono al suo cammino?

«La mia poesia è preghiera, laica. Scrivendo prego per le persone che ho amato e sono scomparse. Sì, è una forma di profonda gratitudine per avermi accompagnato in questa avventura e arricchito la mia vita con la loro presenza».

Ha vinto un altro premio, questa volta a Bellinzona. Una conferma di aver fatto della poesia una scelta di vita?

«Non ho mai scritto per avere premi o sentirmi dire che sono bravo, anche se i premi fanno piacere. Sarei un ipocrita se affermassi il contrario ma ho sempre scritto perché non ne potevo fare a meno e avevo bisogno di confessare ad altri quello che provavo, renderli complici, sperando si potessero riconoscere e, in qualche modo, trarne beneficio o consolazione. Mi è capitato più volte, dopo letture pubbliche, che qualcuno mi abbia avvicinato confessando: “Lei ha scritto cose che io sentivo, ma non trovavo le parole”. Credo che un riconoscimento migliore non si possa avere quando si tenta di scrivere poesie”.

Cosa significa oggi essere poeta?

«Sinceramente non lo so. È come chiedere cos’è la poesia. In molti hanno provato a darle una definizione, ma non ci sono riusciti. Al massimo sono arrivati a dire che è un linguaggio a parte e diverso da quello che usiamo comunemente. Credo scaturisca dall’anima. La poesia, per la sua natura misteriosa, è indefinibile. Si può dire che il poeta è una persona molto sensibile e spesso fuori da ogni schema comune che cerca dentro di sé quel linguaggio e prova a metterlo sulla pagina, ma non sempre ci riesce».

Che ruolo può avere la poesia in una società basata sui social, dove pare trionfino banalità e superficialità?

«Non mi trovo a mio agio in questa società. Sono sempre fuori luogo e in ostaggio, ma amo disperatamente la vita e vado avanti a testa bassa. Leggo molto, scrivo e cerco di tenermi alla larga dai social e dalla banalità imperante. Non sempre ci riesco purtroppo ma la poesia sarebbe decisiva se venisse accolta con il rispetto e l’amore che merita».

I poeti hanno sempre uno sguardo profetico, lei cosa vede alla finestra del domani?

«Domani, dalla mia finestra, vorrei vedere le persone che ho amato, che mi aspettano sulla strada sotto casa, e andarmene con loro, finalmente in pace».

Stefano Simoncelli, “Un barelliere del turno di notte”, Pequod, Ancona, 2021, pp. 64, euro 12

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