Pizzolante: Mappa dei bisogni e delle sfide

Siamo agli anni 20 o 50 del secolo scorso? Quali sono i bisogni principali dopo il Coronavirus? Quali sfide? Provo, e chiedo perdono subito per le inevitabili semplificazioni, a costruire una mappa dei nuovi bisogni e delle sfide, dentro un’analisi storica, per il durante e il dopo la pandemia. L’obiettivo non è definire (non sono De Rita) i nuovi bisogni, ma analizzare , scrivere i titoli (alcuni) delle tematiche indotte, sul piano economico e sociale, da un fenomeno paragonabile alle grandi catastrofi globali. A prescindere dalle nostre idee su come è nato e si è sviluppato e sugli errori commessi. Parto dal dato di fatto oggi. Di un mondo che arresta i motori.

Come reagiamo? È la domanda più importante. Secondo me. Perché dalle grandi crisi (come le guerre) si può uscire migliori o peggiori. In meglio o in peggio.
Con la Grande Guerra del 15/18 è venuto fuori il peggio di noi. Il primo decennio del secolo scorso è stato fra i migliori della nostra storia. Lo stato liberale ha spinto la rivoluzione industriale e le forze e le culture riformiste hanno reagito avviando le riforme sociali. Risposte a bisogni nuovi. Le prime tutele pubbliche o di mutuo soccorso, dei malati, dei bambini, dei lavoratori. Le conquiste democratiche fondamentali, come il primo suffragio universale. Ma la democrazia è il terreno delle opportunità come delle responsabilità. Non ci dà la garanzia di proteggere l’uomo da se stesso. L’uomo è più libero. Anche di fare errori. Anche gravi. E allora la guerra. E dopo la tragedia, la miseria e i nuovi bisogni, senza risposta. Il terreno fertile sul quale si diffusero i virus delle ideologie assolutistiche, degli anni 20 e 30. Sino alla nuova guerra.
La prima guerra colse impreparata la giovane democrazia italiana. Che non ebbe la forza di organizzarsi verso i nuovi bisogni.
La seconda guerra, al contrario, aveva duramente preparato l’Italia e il mondo, sull’assenza di democrazia e di solidarietà fra gli stati. E quindi venne fuori il meglio di noi. In tutto il mondo.
Dopo pochi anni, coloro che si erano sanguinosamente combattuti in Europa, si sedevano intorno allo stesso tavolo per i primi trattati e per edificare l’Europa come principale regione di pace nel mondo. A Rimini e in Romagna, dopo pochissimi anni, i tedeschi e gli inglesi, tornarono, senza armi, per prendere il sole sulle nostre spiagge. Fanfani diede la terra ai contadini. L’America aiutò l’Italia con il Piano Marshall. I bambini, le donne, le famiglie, gli anziani, trovarono nello stato, nei partiti, nei sindacati, le risposte ai bisogni. Gli imprenditori e i lavoratori trovarono gli stimoli per sostenere produzione e sviluppo.
Aiuti economici alle imprese, sostegno al reddito dei lavoratori, tutele sul lavoro, sanità pubblica, asili, scuole, credito alle imprese e alle famiglie, investimenti pubblici e moderata pressione fiscale. Anche una certa “libertà” fiscale, diciamocelo. Così l’Italia riparti. E così crebbe il sistema democratico.
Oggi? Veniamo da una lunga stagione di democrazia. Negli ultimi due decenni con una democrazia un po’ stanca e confusa. Con gravissimi squilibri dei poteri, con un crollo del peso di parlamenti, partiti, corpi intermedi. I motori della ripresa di 70 anni fa. Negli ultimi anni, addirittura, la stanchezza si è tramutata in forme di rifiuto della democrazia. Più o meno consapevolmente. Uno vale uno, uomini soli al comando, voglia di pieni poteri.
In questo contesto è arrivata questa nuova grande crisi. Non una guerra. Ma un evento che cambierà, come le guerre, i comportamenti umani.
Siamo agli anni 20 o agli anni 50 del secolo scorso? Il mondo è pronto ad impazzire di nuovo? O è già impazzito?
Ecco, se noi imparassimo a tirare fuori la testa dalla bolla nella quale siamo immersi, se imparassimo a guardare la prospettiva sulla base degli eventi e delle esperienze del passato, daremmo così la prima, fondamentale, risposta al nostro bisogno primario, che oggi è: capire dove andare e credere di potercela fare. Perché è già successo. E abbiamo bisogno di non credere ai disfattisti. Non dargli retta, non guardarli in televisione, non leggerli sui giornali e sui social. Ascoltare i competenti, anche con le loro contraddizioni. Essere lucidi!
E poi battersi! Battersi! Perché lo stato sia all’altezza. Possa e debba fare di più. E affinché l’Europa sia all’altezza. E diventi Stati Uniti D’Europa.
Nessuno deve perdere il lavoro, nessuna impresa deve chiudere.
Quindi, più solidarietà concreta, più fiducia, più lucidità, più unità fra le persone, fra gli stati, sostegno alle imprese (con soldi liquidi e prestiti a lunghissimo termine) e al lavoro, sostegno al reddito, stimoli fiscali potenti, sblocco investimenti pubblici.
Almeno mille miliardi di spesa europea.
Con Bond europei.
Obiettivi grandi e subito, non un pezzo alla volta. Altrimenti le aziende non riaprono più. E non bisogna avere paura, per il debito.
Nel 53, l’ha scritto Vito Lops del Sole 24 ore, la Germania (che la guerra l’aveva voluta e persa) a Londra, fece un accordo fondamentale con altri 20 stati. Per la gestione del suo debito. E per spingere la crescita. E fu boom economico.
Ora è il tempo che la Germania se lo ricordi. Ed anche la Bce. Ed anche noi.
Direzione anni 50.

*già parlamentare

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