Pippo Giordano: "Sono cresciuto a pane e mafia, poi ho scelto"

Pippo Giordano, palermitano d’origine e romagnolo d’adozione, oggi è un nonno di 5 nipotine che racconta la sua storia ai ragazzi e alle ragazze come superstite alla lotta a Cosa nostra. Ex ispettore di polizia, ha operato in prima linea nella lotta contro la mafia nei momenti più duri e sanguinosi, con incarichi nella Direzione investigativa antimafia-Dia, al fianco dei giudici Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Ninni Cassarà e Beppe Montana, tutti vittime della mafia. Proprio assieme al giudice Borsellino tenne l’ultimo interrogatorio del magistrato il 17 luglio 1992 con il pentito Gaspare Mutolo.
Il bivio mafia o legalità
«Sono cresciuto a pane e mafia. Non è un caso che io sia nato in una borgata dove c’era un bivio perché è vero che fin da piccoli si sceglie da che parte stare. Fino a 18 anni ho frequentato le abitazioni, per motivi di lavoro, di grossi mafiosi palermitani come Michele Greco, e acquisii da ragazzo una certa dimestichezza col mondo mafioso. Ecco il bivio: potevo scegliere di diventare mafioso o scegliere la vita che poi ho fatto. Tutto questo grazie ai miei genitori che mi hanno educato in una certa maniera, basata sull’onestà e sul rispetto degli altri. Ho avuto un rapporto di lavoro con il papà di Fiammetta, una persona molto mite, senza chiacchiere, senza tanti riflettori accesi, come Falcone. Non meritavano di morire».
L’ultima volta con Borsellino
«Quel 17 luglio, dopo aver chiuso l’interrogatorio, ci siamo dati appuntamento per il lunedì successivo o dopo perché Paolo Borsellino ci disse che forse sarebbe andato in Germania a interrogare due mafiosi. Ci salutammo, lui tornò a Palermo e io presi il treno e venni dalla mia famiglia a Forlì e andai al mare a Cesenatico. Mentre ero in spiaggia, una signora accanto a me aveva un radiolina accesa e commentava col marito “Hanno ammazzato un giudice a Palermo. C’è stata una strage” . Mi è caduto il mondo addosso perché non era la prima volta che soffrivo per queste disgrazie. Il mio telefonino di servizio cominciò a squillare ma io non avevo voglia di rispondere, rientrai a casa e presi subito il treno per Roma. Noi della Dia non siamo stati investiti dell’indagine su via D’Amelio tranne in un particolare, l’ordine di pedinare un soggetto mafioso palermitano, un cognato di Vincenzo Scarantino, che arrestammo. Noi abbiamo investigato su Capaci e siamo stati i primi ad arrestare alcuni autori della strage».
Solitudine e traditori
Giordano ha poi ricordato i colleghi assassinati dalla mafia Beppe Montana e Cologero Zucchetto, ricordando come in quegli anni la squadra mobile di Palermo ha avuto 10 morti ammazzati, di cui 5 facevano parte della sua sezione. E di come lavorassero da soli. «Lo Stato che noi avevamo anche sollecitato per avere strumenti, anche autovetture per continuare l’attività investigativa, ci lasciò soli. Ma nessuno di noi alla mobile di Palermo e dei carabinieri ha mai pensato di mollare per paura di essere uccisi e potevamo anche salvare Falcone, ma abbiamo avuto dei traditori all’interno della squadra mobile di Palermo. Ora è cambiato molto, adesso a Palermo c’è una cultura della legalità. Quando abbiamo seppellito Lillo Zucchetto c’eravamo solo noi dietro al funerale».
Palermo ora contro la mafia
«Oggi a Palermo c’è la coscienza di ripudiare la mafia. I siciliani si sono risvegliati, si è risvegliato il loro orgoglio. I mafiosi credono di essere uomini d’onore, ma è un onore sbagliato. Sono uomini d’onore quelli che si alzano ogni mattina per andare a lavorare».

Il piccolo Di Matteo
Anche Pippo Giordano ha commentato sull’arresto di Matteo Messina Denaro: «Ho il rammarico per non aver salvato il piccolo Di Matteo, strangolato e sciolto nell’acido. Anche lì avevamo visto giusto, avevamo localizzato una villetta in un paese vicino a Palermo dove avevamo ipotizzato che fosse tenuto nascosto il bambino. Lui non c’era però il proprietario della villa era uno dei carcerieri».
Appoggi a Messina Denaro
Sull’arresto di Messina Denaro: «sono contento perché è una vittoria dello Stato, anche se in ritardo. Noi conosciamo solo la parte finale di quest’arresto, ma c’è del lavoro, del tempo, della paura e la lontananza dalla famiglia di chi lo ha fatto. Spero di cuore che Matteo Messina Denaro possa collaborare con la giustizia per raccontare che cosa c’era dietro la mafia. Perché se pensiamo che le stragi di Capaci, di via D’Amelio e altre ci sia solo la mafia si fa un errore storico. Chi c’era poi dietro l’ala militare spero che venga fuori. Io escluderei che qualcuno dello Stato possa aver aiutato Messina Denaro. Certo, alcune persone lo hanno appoggiato, ma nell’ambito esclusivo di Cosa nostra. Io ancora nel 2013 dissi che lo potevano trovare a Palermo, lo sapemmo da una soffiata e dalla convinzione che potesse essere custodito da Provenzano e da Riina. Può anche avere goduto di coperture da parte di qualche politico. C’è una sentenza di Trapani su un politico siciliano che aveva un incarico a livello europeo pur sapendo che era sotto inchiesta per motivi di mafia. Non escludo quindi che qualche pezzo grosso abbia aiutato Messina Denaro nella latitanza, che aveva le basi per stare a Palermo anche se escluderei che sia diventato il nuovo capo di Cosa nostra perché i mafiosi palermitani non l’avrebbero consentito. Ma escluderei che un organo dello Stato, come i carabinieri, la polizia, la finanza, lo abbia aiutato».

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