Piangipane, Dadina e la classe operaia che non c'è più

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In scena al teatro Socjale di Piangipane fino a domenica 10 ottobre, Mille anni o giù di lì è una produzione Teatro delle Albe/Ravenna Teatro, con la drammaturgia di Luigi Dadina, Davide Reviati e Laura Gambi e le musiche di Francesco Giampaoli. Il racconto di un uomo, chiuso in una stanza, in un quartiere di periferia: le palazzine, i vicini, la fabbrica ormai vuota, i camion di passaggio.

Luigi Dadina, come nasce “Mille anni o giù di lì”?

«C’è una data precisa che credo sia a una settimana esatta dalla chiusura per la pandemia: io presentavo uno spettacolo al Cisim insieme a Francesco Giampaoli, e Davide Reviati, con il quale ci conosciamo da tanto tempo; venne invitato insieme a noi a partecipare a questo incontro dal titolo “Arte e periferia”. La sera mandai una mail a Davide dicendo “forse è ora che facciamo qualcosa insieme” e lui rispose “faremo sicuramente una cosa insieme”. E da lì è partita. Il tempo della pandemia è stato il tempo di preparazione di questo lavoro, non perché l’avessimo deciso, ma è andata così».

Cosa racconta lo spettacolo?

«C’è questo uomo della mia età, che probabilmente non esce di casa da trent’anni, potrebbe essere il villaggio Anic ma potrebbe essere un quartiere di qualsiasi città industriale, potrebbe essere Düsseldorf o negli Stati Uniti. In questo villaggio operaio questa persona guarda fuori dalla finestra, un po’ delira, un po’ medita, un po’ racconta quello che vede, e vagheggia queste madri nomadi. E si capisce che tra la contraddizione sua di non uscire di casa e il sogno di queste madri nomadi, si gioca tutta la follia di questo personaggio».

Qual è il ruolo della periferia industriale nella vita del protagonista?

«Il mondo operaio, la “classe operaia” come veniva chiamata un tempo, ma ormai non la chiama più nessuno così, è una delle figure scomparse: oggi gli operai esistono ancora, però sono fuori da qualsiasi ragionamento sia politico che culturale. È come se un’intera classe fosse scomparsa: sappiamo bene che non è così, ma è finita la rappresentanza, è finita la mitizzazione ed è rimasta la solitudine. La scelta è di raccontare questo, perché dobbiamo sempre raccontare alcune storie e non altre: c’è una scelta precisa di raccontare di questo mondo e non di un altro mondo».

Una scelta politica nel senso più lato e più importante del termine?

«Sì. Il lavoro viaggia su questa rappresentazione inscindibile tra psiche e polis, quindi una politica che si disinteressa in qualche modo delle questioni elettorali ma pone una questione sociale profonda e, facendo questo, non può che comprendere e ragionare sulla psiche delle persone. Questo secondo noi è inscindibile: la psiche e la politica».

Il lavoro è nato a quattro mani?

«La squadra è composita. Laura Gambi ha partecipato moltissimo a questo dialogo tra me e Davide, in realtà quasi la drammaturgia è sua, ma anche questa idea di mettere insieme immagini e parole. Lei è stata costantemente presente nella costruzione tra me e Davide, devo dire anche in maniera molto bella e importante. Con Francesco Giampaoli era una cosa già in atto: il suo lavoro è fondamentale ma è arrivato in un altro momento, nel tempo giusto. L’ideazione e la drammaturgia passa proprio tra me e Davide, che abbiamo ideato il tutto, e Laura che in un qualche modo ha curato la tessitura dell’alternarsi dell’immagine con le parole e ha scritto anche alcuni frammenti. Adesso non sapremmo più dire chi ha scritto cosa, ma ha avuto un ruolo molto importante».

Qual è il rapporto fra parola e immagine?

«Avevamo in mente alcune cose dall’inizio. Non volevamo che nessuno dei due linguaggi soccombesse o fosse al servizio dell’altro. Non volevamo che l’immagine fosse didascalica: volevamo che continuasse a raccontare con il proprio linguaggio. L’obiettivo fin dall’inizio era che musica, parola e immagine contribuissero a creare un racconto unitario».

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