Pessoli, colori californiani e vibrazioni spirituali

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Colori californiani e intense vibrazioni spirituali per Alessandro Pessoli e il suo grande lavoro pittorico “Me and him”, esposto al pubblico per “Ascoltare bellezza” alla Sala del Mosaico della Biblioteca Classense in dialogo, fino al 22 febbraio, con il prezioso pavimento musivo del VI secolo d.C. che denomina la sala.

L’affermato artista cervese, che vive e lavora a Los Angeles, ha realizzato l’opera nell’aprile 2020, nei giorni più bui della pandemia, con diverse tecniche (dalle vernici a spray, ai colori a olio e a acrilico), riprende, paradossalmente, i temi drammatici della solitudine e della separazione dal mondo esterno, come un estremo tentativo di slancio verso la promessa di rinnovamento e rinascita.

Tra le sue mostre personali, quelle al Drawing Center di New York, al Man Museo d’arte della provincia di Nuoro, alla Triennale di Milano, al Nouveau Musée National de Monaco e al Museum of Modern Art di San Francisco. Ha inoltre partecipato alla 53ª Biennale d’arte di Venezia e alla Quadriennale di Roma. Le sue opere sono presenti nelle più importanti collezioni di musei internazionali come il Moma di New York, l’Hammer Museum e il Moca di Los Angeles, il San Francisco Museum of Modern Art e il Maxxi di Roma.

Affrontando vari temi, tra cui politica, religione, storia, cultura e identità, l’opera di Pessoli è caratterizzata dall’utilizzo di disegni, dipinti e sculture che spesso rappresentano figure espressive e apparentemente malinconiche all’interno di spazi isolati e indeterminati. Nelle sue mani, i personaggi storici o gli eventi storici subiscono spesso un processo di metamorfosi e “reimaging” che infonde un inquietante senso di connessione con il presente («Anche i brandelli delle lattine dei fagioli – dice l’artista – possono diventare foglie di una corona e riflettere la stessa luce pura che si vede nelle opere antiche»).

Pessoli, come dialoga con il prezioso pavimento musivo questa opera realizzata nei giorni della pandemia?

«Nel quadro, le gambe della figura diventano delle radici che discendono nella terra per poi tornare in superficie nell’immagine di un fiore, simboleggiando il ciclo vita, morte, rinascita. Ho pensato a questo dipinto quando mi è stata proposta la mostra alla Classense. Ravenna e le chiese con i mosaici bizantini sono parte delle mie radici. Ho cominciato il mio percorso artistico all’Istituto d’arte per il mosaico con Marcello Landi, che negli anni Ottanta è stato il primo artista con cui sono cresciuto».

Perché predilige l’impiego di diverse tecniche e materiali, per realizzare figure di cui lei ha affermato di vivere personalmente le contraddizioni?

«Utilizzare diverse tecniche mescolandole insieme è la mia contemporaneità. Un modo di formalizzare figure fatte di frammenti e tempi storici diversi. Sono anche il riflesso di una società priva di sostanziali differenze, dove tutto si mescola in una cultura massificata ma densa di conflitti e fratture, le stesse che viviamo ogni giorno».

In che maniera questo rappresenta quello che lei ha definito una sorta di «espressionismo trattenuto»?

«È una una metafora che riflette una condizione di sofferenza e insieme di ribellione, un approccio esistenzialista al mondo, la ricerca di una luce che illumini il buio. Edvard Munch con lo smartphome».

«Forse solo l’arte religiosa – lei ha affermato – riesce a trattenere i significati, a recuperare una memoria interrotta».

«Simboli e significati potenti che scorrono attraverso i secoli mi aiutano ad avvicinare un luogo interiore. La memoria si è interrotta perché l’arte contemporanea è una continua riformulazione dell’identità nel senso ampio del termine, linguaggi e materie in continua trasformazione. Anche le mie immagini tendono a essere problematiche, instabili, mentre la Chiesa ha richiesto secoli di storia agli artisti per definire e stabilizzare una immagine, il Cristo sulla croce per esempio».

Quali sono le difficoltà che esistono, lei ha sottolineato, nell’installare opere contemporanee nelle chiese?

«La difficoltà maggiore è far si che le opere contemporanee possano essere “viste” dai fedeli, quindi accolte come parte della stessa storia, di un territorio comune che faccia sì che anche l’iconografia antica ritorni a nuova vita e venga riconosciuta».

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