Pasini e il Napoleone ladro d'arte in Romagna

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Le ruberie napoleoniche in Italia sono storia nota, ma non tutti sanno che in Romagna le cose sono andate in maniera particolare. Le racconta Pier Giorgio Pasini, storico dell’arte, nel suo ultimo volume Napoleone e le rapine d’arte in Romagna (Minerva editrice), che sarà presentato sabato 20 alle ore 17 nella Biblioteca Baldini di Santarcangelo. «Quando si parla dell’Emilia-Romagna, si dice che Napoleone ha portato via centinaia di opere – esordisce Pasini –. Dalle mie ricerche ho scoperto che questo è successo in Emilia, mentre dalla Romagna ha preso solo due libri a stampa, neanche manoscritti, dalla Biblioteca Malatestiana di Cesena».

Professore, a cosa si deve questa differenza?

«Le ruberie sono state fatte da una commissione che aveva degli elenchi di opere da requisire, preparati a Parigi. Ad esempio, nella tal chiesa della tal città va preso il tal dipinto. La commissione ha fatto il suo lavoro, ma negli elenchi mancavano le opere della Romagna».

E perché?

«Perché questi elenchi erano stati redatti sulla base della letteratura corrente, cioè delle guide cittadine, oppure della letteratura del Grand Tour. Per quanto riguarda le guide, in Romagna di testi a stampa esisteva solo la guida di Rimini, scritta da Carlo Francesco Marcheselli, edita postuma nel 1754. Le guide di Forlì e Ravenna erano manoscritte ed erano nelle biblioteche dei loro autori, sono venute fuori adesso. In ogni caso la Romagna era considerata un territorio marginale. I nobili d’Oltralpe che venivano in Italia per il Grand Tour visitavano Milano, Bologna, Firenze, Roma, e poi scrivevano delle meraviglie che avevano visto, ma non passavano in Romagna. E quindi i redattori parigini degli elenchi di opere da rubare non portarono via niente perché pensavano che non ci fosse niente di bello nella nostra zona. Questo per quanto riguarda il primo periodo».

Ce ne fu un secondo?

«Finito il primo momento giacobino dell’occupazione italiana da parte di Napoleone, poi abbiamo una seconda occupazione successiva al 1800, nella quale le regioni dalla Lombardia alla Romagna vengono riunite con capitale Milano. A capo del neocostituito Regno d’Italia, nel 1805 Napoleone mise Eugenio de Beauharnais, figlio di Giuseppina Bonaparte, e lo nominò viceré. In quel periodo la Pinacoteca di Brera divenne un piccolo Louvre. Eugenio ha fatto requisire migliaia di opere d’arte, non solo dalla Romagna ma anche dal Veneto e altri territori. Erano così tante che Brera non sapeva che farsene. Le ha vendute, le ha scambiate e quelle che rimanevamo le ha distribuite nelle chiese povere della Lombardia, dimenticando poi di controllarle, per cui alcune sono rovinate, distrutte o non ci sono più. Alcune però sono ancora lì, nelle chiese di piccoli paesi sconosciuti della Lombardia».

E non è possibile riaverle indietro?

«Ce lo chiediamo da tempo, ma non si è mai arrivati a niente. Ci sono anche le opere che Brera tiene nei magazzini e non sono visibili. Solo due sono tornate, in prestito naturalmente, alla chiesa di San Cristoforo di Ferrara da cui venivano. Ma per il resto non ci si è mai messi d’accordo, sembra impossibile ma è così. I romagnoli si sono mossi dagli anni Trenta, negli anni Cinquanta hanno anche fatto una commissione per rivendicare queste opere ma non se ne è fatto niente. Perché? Non lo so, certo la burocrazia ha sempre il suo grande peso. Poi c’è un’altra motivazione. Adesso le pinacoteche locali sono valorizzate, ma fino a poco tempo fa dove le portavi queste opere? I luoghi a cui sarebbero dovute tornare non erano considerati posti sicuri».

Poi ci sono le opere che sono state vendute…

«Napoleone ha chiuso chiese e conventi e quello che non ha portato a Parigi o a Milano, lo ha venduto. Ora queste opere sono disperse nel mondo, dalla Russia all’America. I frutti di tali vendite, all’epoca, sono andati ai francesi, perché non dobbiamo dimenticare che allora la Francia era alla fame e Napoleone decise di invadere l’Italia proprio per portare soldi nella sua patria. Tra le opere c’erano anche calici, ostensori e altri oggetti d’oro e d’argento requisiti nelle chiese. Venivano presi non in quanto opere d’arte ma come materiale che veniva fuso sul posto e poi trasportato sotto forma di lingotti».

Non ci furono reazioni a queste ruberie?

«Per quanto riguarda la Romagna, a queste requisizioni si sono opposte varie città con modalità diverse. Anche Rimini lo ha fatto ed è riuscita a salvare molto: i quadri del Vasari, le pale venete, il Guercino della chiesa di San Girolamo… Ci si opponeva anche alla requisizione delle statue dei papi. I riminesi riuscirono a salvare la statua di Paolo V trasformandola nella statua del vescovo, di San Gaudenzio. Cesena e Ravenna nascosero le loro statue dei papi per evitare che venissero portate via. Insomma, queste pretese non erano per nulla gradite, anche perché, come dichiarò il capo del municipio di Forlì, senza quelle opere d’arte la reputazione della città diminuiva, dato che tale reputazione è giustamente legata anche alla storia, agli interessi e al potere della città stessa».

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