Pari: il "vecchio 87", non nascondiamo l'orrore

L'ostinazione alla sdrammatizzazione, offende la memoria dei caduti, disconosce la sofferenza degli ammalati, svalorizza l’eroico lavoro di coloro che quotidianamente rischiano la loro vita per curare i bisognosi. Di recente, ho letto la testimonianza di un sacerdote, uno dei tanti, che insieme al personale sanitario, hanno reso eroici i giorni della pandemia. Sono numerosi, i ministri del culto cattolico che hanno rischiato o perso la vita in questa drammatica emergenza, rendiamo merito anche a loro.

In silenzio, con coraggio, hanno tenuto la mano di tanti caduti, nell’ultimo momento della vita, in estrema solitudine, gli hanno offerto il conforto della speranza, rendendone più lieve il trapasso. Queste righe, sono solo una riflessione, scaturitami dopo la lettura del drammatico racconto di un sacerdote. Poche parole alla fine di una vita, quasi banali, drammaticamente efficaci, splendidamente umane, emotivamente toccanti, drasticamente indelebili: “padre, mi dia la benedizione, la supplico ! Padre, saluti i miei due figli,  gli dica che li ho tanto amati. Avrei solo desiderato abbracciarli, per l’ultima volta”.
Queste, le preghiere espresse dal “vecchio 87”. Una testimonianza cruda, reale, drammatica, un colpo allo stomaco, con gli addominali rilassati dall’opulenza. Il “vecchio 87” è un codice. I numeri, nei drammi, a volte, prendono il posto dei nomi, che non hanno più alcun valore, come la dignità. Il “vecchio 87”, non era neppure vecchio, aveva 68 anni. Questa greve testimonianza, è l’ emblema della pandemia, delle sue caratteristiche spietate, fino ad alterare la morte, moltiplicandone, se possibile, l’orrore. Il “vecchio 87” era malato, ma lucido, ha percepito l’avvicinarsi della fine, l’inesorabile solitudine, la lontananza degli affetti più cari. Il “vecchio 87” è morto solo, in mezzo a tanti. L’orrore della morte per pandemia non ha fine, neppure dopo il trapasso. Nega il commiato finale, non concede “l’onore delle armi”.  Il “ coronavirus” colpisce indistintamente, con una predilizione: “i vecchi”. Nella società moderna, l’anamnesi del termine, porta ad associarlo a qualcosa di negativo, quasi dispregiativo, sicuramente irrispettoso. Sostanziale la differenza con tante altre culture, che peraltro, riteniamo presuntuosamente meno evolute. Quelli che oggi definiamo “vecchi”, inquadrabili scientificamente dalla penultima  fase dell’età anziana, sono coloro che hanno spesso dedicato la vita al lavoro, per migliorare il proprio benessere, quello dei loro figli, ma anche quello collettivo. In tante famiglie, “i vecchi” hanno realizzato il sogno di costruire una casa, donandola ai loro cari, che altrimenti, viste le odierne dinamiche salariali, difficilmente avrebbero potuto acquistare. Nel nostro paese, i vecchi sono il futuro. Una contraddizione nei termini, con un fondo di verità. In questa martoriata Italia, decenni di politica dissennata, ed elettori distratti, hanno consegnato alle future generazioni uno dei maggiori debiti pubblici del mondo, ipotecandone seriamente il benessere e le conquiste sociali. Uno dei pochi spiragli di garanzia, sono i risparmi dei cittadini, accumulati soprattutto dai “vecchi”, dalle loro tante rinunce.  Il rispetto verso le persone anziane, è uno strumento di misura, per valutare il livello di civiltà. La storia del “vecchio 87”, rimane scolpita nella memoria, sintetizza il dramma, motiva la riflessione, offre uno spunto, per una valutazione sinottica della vita ante emergenza sanitaria, mette in discussione la scala dei valori di una società opulenta, malata, forse, non solo per la pandemia.   

*Giornalista, Docente e Referente di sede d’esami universitaria

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