Paolo Nori: Dostoevskij e una ferita che non si è rimarginata

Archivio

«Mi ricordo perfettamente la sensazione che quel libro, pubblicato 112 anni prima a 3mila chilometri di distanza, mi provocò, aprendomi una ferita che non avrebbe smesso di sanguinare. E sanguina ancora».

Quel libro, letto quando aveva 15 anni, preso dalla biblioteca del nonno, era Delitto e castigo di Fëdor M. Dostoevskij e la cicatrice aperta non solo non si è rimarginata ma ha segnato la sua vita di uomo e di scrittore.

Paolo Nori, scrittore, traduttore, docente universitario parmense che ora vive a Casalecchio di Reno, ce lo racconta così come fa nel suo ultimo libro Sanguina ancora. L’incredibile vita di Fëdor M. Dostoevskij (Mondadori, 2021), finalista al Premio Campiello, che oggi presenterà a Santarcangelo, Biblioteca Baldini, alle 21. Nori è un appassionato di letteratura russa, definitivamente marchiato da questo amore, di cui porta i segni e che gli ha fatto scrivere altri libri. Tra gli oltre 45 romanzi pubblicati, ci sono La grande Russia portatile (Salani, 2018) e I russi sono matti. Corso sintetico di letteratura russa 1820-1991 (Utet, 2019) che come i romanzi si leggono d’un fiato, avvicinano alla letteratura russa e ne parlano in modo unico e originale. E fanno auspicare che Nori dedichi a ciascuno scrittore russo un testo come quello su Dostoevskij.

Nori, la sua è una sincera dichiarazione d’amore e fedeltà all’autore che l’ha segnata irreversibilmente, lei gli fa riprendere vita. Perché?

«Perché, come recita il sottotitolo, credo davvero che la sua sia stata una vita incredibile, stupefacente. Ripercorrendo quei momenti curiosi e sensazionali si scopre che gli è successo di tutto: è stato condannato a morte e graziato quando era già sul patibolo, è stato in galera più volte, ha rischiato di perdere i diritti sui suoi libri, e nonostante tutto è riuscito a scrivere dei capolavori».

Leggendo il suo libro si conosce l’uomo, con pregi e difetti.

«Si scoprono i suoi difetti, le sue debolezze, lo strano rapporto col danaro, faceva debiti che non assolveva, tutti aspetti che non lo fanno sentire più distante ma più simile a me».

Lei non si limita a tratteggiare un ritratto inedito e appassionato, ma propone un vero e proprio dialogo tra due vite, quella di Dostoevskij e la sua.

«Apparentemente così distanti, s’intrecciano. La storia di Dostoevskij non è altro che quella di un uomo goffo, calvo, un po’ gobbo, disperato, confuso, contraddittorio, che riesce a morire nel momento del suo più grande successo. Si rivela un uomo vivo, rivoluzionario, fragile, così da allontanare il tradizionale ritratto austero e distante».

Si aspettava tanto successo per questo suo libro?

«No, anzi, avevo molta paura perché ci ho messo dentro tanto di me, temevo una risposta diversa, invece ciò è stato compreso e apprezzato. Sono molto contento del lavoro della casa editrice che mi ha confortato fin da subito».

Perché ama così tanto Dostoevskij e Lev Tolstoj?

«È come chiedere se ami più il babbo o la mamma. In Italia succede che ci si divida in due partiti e si parteggi per l’uno o per l’altro. Io li amo entrambi. Scrivono in modo diverso ma sono due grandissimi. Io mi sono avvicinato prima a Dostoevskij per caso, per aver trovato in casa i suoi libri, ma poi ho recuperato Tolstoj e tutti gli altri».

Una passione che l’ha spinta a studiare letteratura russa.

«Avevo 25 anni quando mi sono iscritto alla facoltà e ho passato sei anni fantastici (di cui due per preparare le tesi), a studiare Lingua e letteratura russa. La lingua e il popolo russo sono meravigliosi, io sono ancora dentro quell’incanto lì. E sono in fermento perché sto organizzando un viaggio a luglio a San Pietroburgo».

Parlare d’amore per la Russia oggi non è facile, lei stesso è stato vittima di questo atteggiamento incomprensibile.

«Si riferisce all’episodio di cui sono stato protagonista alla Bicocca?».

Avrebbe dovuto tenere lezioni dedicate a Dostoevskij e ha ricevuto dall’ateneo una email che le comunicava il rinvio per «evitare ogni forma di polemica soprattutto interna in quanto momento di forte tensione».

«Io mi occupo di letteratura che è più forte di qualsiasi altra cosa. Mi dispiace per quelli dell’Università Bicocca. Lì avrei dovuto fare 4 lezioni e oggi in giro per varie università sono diventate 44. Un fatto negativo si è trasformato in positivo».

Qual è il suo stato d’animo di fronte all’escalation della guerra?

«È straziante, incredibile che popoli fratelli si combattano. Sono addolorato, disperato e speriamo che finisca presto».

Cosa pensa accadrà?

«Non so dirlo, io sono 30 anni che studio lingua e letteratura russa e 30 giorni che mi fanno domande di geopolitica ma preferisco non esprimermi in una materia che non conosco».

Intanto speriamo che lei scriva presto di un altro autore russo.

«Sto preparando un libro e sarà simile all’ultimo, questa volta il secolo di riferimento è il Novecento e la protagonista è Anna Achmatova, grande protagonista della letteratura e della storia russa, per altro nata vicino a Odessa. Basti dire che lei se la vedeva con Stalin. Per questo andrò in Russia e il libro uscirà l’anno prossimo con Mondadori».

Oggi in Russia si fa ancora grande letteratura? I giovani amano ancora poeti e scrittori, e portano fiori sulle loro tombe come avveniva un tempo?

«In questi ultimi 20 anni in Russia la letteratura ha avuto un valore meno potente, il mercato editoriale anche lì serve per vendere. L’adesione al capitalismo ha cambiato tutto. Ora contano più i blogger e i presentatori televisivi. La sensibilità nei confronti dei grandi maestri però non è mutata, basta visitare il museo di Casa Pushkin ed è facile assistere al pianto di chi ascolta la storia del suo duello; la sua lingua è ancora viva, molto più viva che quella di Dante per noi».

Newsletter

Iscriviti e ricevi le notizie del giorno prima di chiunque altro Clicca qui