Paci Dalò: «Ombre per riscoprire la grandezza del dettaglio»

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RIMINI. È di pochi giorni fa l’uscita di Ombre (Quodlibet, 2019), ultimo tassello creativo di Roberto Paci Dalò, riminese, classe 1962, compositore, musicista, disegnatore, artista visivo, regista e insegnante di Interaction design a Unirsm. Cofondatore nel 1985 del gruppo Giardini Pensili, con all’attivo numerose pubblicazioni afferenti a ambiti culturali diversi, Roberto Paci Dalò è un artista del pensiero e dell’immagine che lavora in collaborazione con i più grandi teatri, festival e musei del mondo. Il suo ultimo lavoro – nato a seguito dell’invito del direttore del museo, Marco Pierini, e sulla scia delle celebrazioni per il centenario della Galleria Nazionale dell’Umbria (1918-2018) – è il primo libro d’artista ispirato al prezioso patrimonio pittorico e scultoreo custodito nelle sale perugine, e riproduce in anastatica il taccuino originale dell’autore, realizzato con i materiali poveri della carta, dell’inchiostro, della matita e dell’acquerello a partire dal Natale 2017 e nel corso di tre mesi durante i quali Dalò ha riprodotto e ripensato le opere, da Agostino di Duccio a Piero della Francesca, dal Perugino a Pinturicchio, da Arnolfo di Cambio a Jacopo della Quercia. Il risultato è un itinerario culturale caratterizzato dalla commistione tra il tempo dell’arte, presente con i dipinti e le sculture, e il tempo della storia, evidente nei riferimenti al passato bellico e politico-sociale italiano, quali ad esempio gli accordi tra Stato e galleria in tempo di guerra e le figure che animarono il passato del Paese come il filosofo pacifista e antifascista Aldo Capitini o il pittore futurista Gerardo Dottori.


Dalò, quale è stata l’esegesi di questo suo ultimo lavoro, suggestivo collettore di pensieri, arte, storia, bellezza, riflessioni?
«Il progetto è sorto dalla necessità di festeggiare il centenario della Galleria Nazionale dell’Umbria attraverso una pubblicazione diversa da quelle canoniche, che permettesse la presenza di uno sguardo d’artista e utilizzasse il taccuino – cui sono sempre stato legatissimo, al punto da divenire ambassador della Moleskine, azienda famosa universalmente – inteso però non come un processo sorto in accompagnamento al lavoro, bensì come l’essenza stessa dell’opera, in una sorta di storyboard, di processo materico realizzato senza alterare la sequenza di ciò che via via andavo a fermare sulle pagine».

«Questo è un libro di dettagli» e ancora: «Il buon Dio si annida nel dettaglio» diceva Aby Warburg. Nel libro, realizzato su un taccuino da viaggio come ai tempi del Grand tour, è costante il riferimento allo storico dell’arte francese Daniel Arasse e alla sua teoria del dettaglio. Quale è la sua personale concezione del dettaglio e quale ruolo ha nel suo vivere la cultura?
«La nostra esistenza vive di dettagli e distanze brevi, la nostra geografia del quotidiano si misura a passi e facciamo una “vita da paese” anche nelle grandi metropoli, misuriamo il vivere, il tempo, le relazioni, il presente proprio a partire dal dettaglio, che diviene così – anche in campo culturale – un modo per affrontare la complessità ed evocare il “grande”, partendo però dal “piccolo”, solo in apparenza più semplice e meno importante ma in realtà fondamentale e pregno di senso».

Il titolo, se da un lato contiene il riferimento all’ombra emessa dai corpi e dalle opere, al loro proiettare qualcosa in un altrove altro da sé e appartenente all’animo di chi osserva, dall’altro rimanda all’etimologia connessa all’origine del nome “Umbria”. Quali altre implicazioni sono sottese a questa scelta?
«Mi piaceva l’idea di inserire l’ipotetica costellazione di significati congiunti alla parola “ombra” e giocare sul cortocircuito tra vero e falso, scientifico e fantascientifico, reale e immaginario proprio per sottolineare quanto ogni certezza sia in realtà opinabile e quanto anche il lavoro dell’artista, anche la fantasia, possano essere molto più concreti di quanto si immagini».

In “Ombre” sono frequenti i riferimenti al mondo dei fumetti (nel suo collegare i cartigli della seconda metà del tredicesimo secolo ai baloon fumettistici) e a quello del cinema (la realizzazione di alcune aureole che riporta al cinema sovietico o la predilezione del pubblico per certi riferimenti splatter nella realizzazione di San Piero). Ha ancora senso la dicotomia tra cultura elevata e cultura popolare?
«Credo sia davvero sterile questo tipo di approccio. Il pubblico è in realtà assai più preparato e sofisticato di ciò che si vuol far intendere. L’importante è non volgarizzare il tema trattato e riflettere in modo consapevole su qualsiasi declinazione che l’espressività umana decide di mettere in scena: il discorso deve essere sempre alto, a prescindere dal campo che si sceglie – che può appartenere o meno alla cultura classica – ed è proprio la possibilità di alzare il livello che garantisce una maggior partecipazione da parte di chi fruisce il prodotto culturale».

Tra le sue pagine ritroviamo improvvise incursioni personali, quotidiane e autobiografiche, evidenti nel riferimento al «primo whisky della mia vita» ordinato durante il soggiorno perugino, nel ricordo della festa ebraica di Hanukkah festeggiata dopo aver acquistato le candeline da Tiger, o lo schizzo autobiografico mentre disegna seduto sullo «sgabelletto da pescatore molto comodo» trovato da Decathlon. Quale ruolo hanno queste note personali?
«Il mio libro è una sorta di graphic novel che funziona sullo spazio e sul tempo, intenso sia come tempo lungo delle opere e dell’arte, sia come tempo personale funzionale alla reintroduzione della presenza umana, quotidiana e concreta – costituita dalle mie incursioni riflessive, concrete e attuali – nel panorama apparentemente distante della grandezza artistica conservata a Perugia. In questo modo si accorciano le distanze e quelle opere non sono più qualcosa di lontano e scolastico, bensì si riappropriano di quotidianità, semplicità e profonda immediatezza».

Progetti futuri?
«Attualmente sono preso dalle presentazioni del libro e contemporaneamente sto lavorando a Trieste e Venezia, curando al tempo stesso un progetto itinerante partito a Weimar e incentrato su spettacoli e laboratori sulla figura del drammaturgo tedesco Heiner Müller».

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