"Outis" al Dimlora di Mondaino: intervista a Elena Griggio

È il mare e il suo attraversamento, inteso come simbolo massimo di tutti i viaggi e del percorso di una vita, il filo conduttore di “Outis. Viaggio per mare”, in prova aperta al teatro Dimora sabato 12, ore 21, a chiusura della residenza artistica, in attesa del debutto il 31 a Ravenna al Rasi, dove tutto è cominciato. Un compendio di storie sul mare frutto di un percorso di ricerca, avviato a Ravenna, nel 2021, poi strutturatosi nell’ambito di più residenze condivise distribuite per tutta Italia.

“Il lavoro è figlio di un grande progetto compiuto dalla compagnia TeatroInFolle che – ha spiegato la regista Elena Griggio anch’essa in scena – si è organizzata in una nuova formazione proprio all’insegna dello stesso, con interpreti tutti incontrati attraverso i laboratori del Teatro Valdoca, con cui io lavoro come attrice. Si può dire che è un viaggio partito dal Teatro delle Albe e partorito in seno alla Valdoca”.

Nata a Venezia nel 2006, la compagnia è caratterizzata da una forte commistione di linguaggi scenici: canto, arte circense, scrittura poetica, musicalizzazione dal vivo, dialogo col linguaggio video.

Qui c’è tutto questo?

«Direi di sì. Soprattutto la musicalizzazione che crea un tessuto sonoro dal vivo, interagisce con ciò che accade in scena e rende lo spettacolo anche un po’ concerto. Poi i cori, il dialogo tra linguaggi e registri diversi. E molta parte ce l’hanno le macchine».

In che senso? Cosa c’è sulla scena?

«Tutti oggetti necessari che vengono usati, soprattutto tre enormi macchinari in legno, ferro, rame realizzati su disegni del 1500, simili a quelli leonardeschi. Una struttura rotante che produce il vento, un’altra il suono dei tuoni, una terza è la macchina del sole alta 2 metri e mezzo che può sembrare un drago che illumina. Poi ci sono 4 grandi vele realizzate con materiali poveri. Il tutto dà l’idea del teatro antico nonostante non sia un lavoro in costume».

Sul palco siete 7 attori e 4 musicisti, anche in veste di coro?

«Siamo tanti e in alcuni momenti tutti insieme diventiamo coro. C’è un coro principale che si sviluppa in canto africano tradizionale mentre un altro è la musicalizzazione di una poesia importante per lo spettacolo».

Parliamo del testo. Avete attinto da testi editi?

«Sono tutti testi originali, molte parole sono di Giuditta Di Meo su cui ho fondato la mia riscrittura drammaturgica. Ci sono citazioni di poeti quali Milo De Angelis e Antonio Machado e si sente la presenza delle liriche di Mariangela Gualtieri per me la più vicina e la più amata».

I diversi quadri della durata di un’ora e 10 minuti, si sviluppano attraverso l’azione dei personaggi e dei musicisti dal vivo, ma come è strutturata la narrazione?

«Non è strettamente lineare, lo spettacolo ha un taglio poetico, costellato da figure il cui filo conduttore è l’attraversamento del mare. Ciascuno propone un monologo: il modo di raccontarsi dei personaggi è solitario ma c’è sempre qualcuno che lo sostiene cioè in scena nessuno è solo e chi non recita e non sta interagendo con la figura portante è un figurante vivo che indossa un naso di cuoio che richiama quello dei clown».

Tutti i registri utilizzati, le macchine sceniche che producono luci, vento e suoni nonché l’uso della maschera sotto forma di naso richiama la commedia dell’arte, è così?

«È un’interpretazione giusta seppure essa non è un registro che ho introdotto tra quelli utilizzati, molti elementi contribuiscono a questa sensazione, in effetti c’è un sapore di commedia dell’arte anche grazie a un attore, Severgnini, che ha questa formazione».

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