Omicidio Minguzzi, parlano due imputati tra alibi e contraddizioni

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Dei tre imputati, due hanno deciso di parlare. Angelo Del Dotto, l’ex carabiniere oggi 59enne, e Alfredo Tarroni, l’idraulico 65enne, accusati di avere rapito ad Alfonsine nel 1987 il 21enne Pier Paolo Minguzzi chiedendo alla famiglia un riscatto di 300 milioni di lire e di averlo poi ucciso, hanno risposto ieri mattina alle domande nel corso del processo davanti alla Corte d’Assise di Ravenna. Non c’era invece il terzo coimputato, Orazio Tasca, a sua volta ex militare all’epoca in forza insieme al 59enne alla Stazione di Alfonsine; il 57enne siciliano, a differenza degli altri due presunti complici, non si è più presentato dopo il rinvio a giudizio di due anni fa, quando si era dichiarato innocente sentendosi in dovere di spendere qualche parola anche a favore degli altri due coimputati. Una “cortesia” che ieri si sono ben guardati dal ricambiare Del Dotto e Tarroni, impegnati piuttosto a smarcarsi dall’ipotesi che i tre avessero stretto un patto criminale dedito alle estorsioni. Una sorta di sodalizio, secondo l’accusa, che due mesi dopo il rinvenimento del cadavere del povero Pierpaolo avrebbe portato al loro arresto in flagrante per l’analogo ricatto ai Contarini (altra ricca famiglia del posto) terminato con la sparatoria in cui fu ucciso il carabiniere Sebastiano Vetrano.

L’alibi di Del Dotto

Per 40 minuti Del Dotto ha risposto alle domande. La notte del rapimento del ragazzo (al tempo studente universitario di agraria e militare di leva a Bosco Mesola, nel Ferrarese) tra il 20 e il 21 aprile di 35 anni fa, era di turno come piantone, dalle 19 alle 7. Sarebbe quello il suo alibi. L’imputato ha provato a blindarlo tirando in ballo anche la madre della vittima: «Parlai tutta la notte con la signora Minguzzi. Chiamò una prima volta in caserma verso l’1/1.30 dicendo che il figlio doveva rientrare per la mezzanotte, e chiese se sapevamo nulla. Mezz’ora più tardi chiamò di nuovo riferendo che era uscito con la fidanzata e doveva andare al bowling. Poi una terza volta e una quarta, in cui parlò con il maresciallo Aurelio Toscano. Io chiamai i carabinieri e gli ospedali di Lugo e di Ravenna; ho scritto tutto nel registro delle telefonate».

Di quell’elenco, tuttavia, non c’è più traccia: «Visto il tempo trascorso nulla è stato rinvenuto agli atti di questa Stazione». E’ questa la risposta data due anni fa dalla caserma di Alfonsine al difensore dell’ex militare, l’avvocato Luca Silenzi, che chiedeva copia del documento per ottenere una prova d’innocenza apparentemente granitica. Eppure, ha rimarcato il sostituto procuratore Marilù Gattelli, pur ammettendo che al tempo esistesse un tale registro, lo stesso ex comandante Toscano, già sentito in aula, «tutte queste telefonate non le ha riferite».

I punti deboli

A mettere in dubbio la versione di Del Dotto ci ha pensato la stessa Rosanna Liverani, madre di Minguzzi, chiamata per la terza volta a sedersi al banco dei testimoni: «Io non chiamai in caserma – ha replicato –. Aspettai le 5 di mattina con gli occhi aperti perché i miei figli non avevano mai fatto tardi. Poi telefonai a mia figlia Anna Maria e a un amico di Pier Paolo, che mi disse che era andato al bowling con la fidanzata. Fu poi mio genero a mettersi a chiamare». Ed è proprio la passata deposizione di quest’ultimo, Bruno Malfatti, a far vacillare l’alibi dell’imputato. Alle 6 di mattina – orario in cui il 59enne ancora avrebbe dovuto essere di servizio – andò in caserma, ma non trovò nessuno.

Indagini “compromesse”

Del Dotto è categorico: «Non ho mai partecipato alle riunioni delle indagini né ho mai ascoltato le telefonate delle intercettazioni». Dalle carte in mano alla Procura, tuttavia, emerge altro: porta infatti la sua firma l’accertamento all’ufficio anagrafe e all’ostello Stella eseguito due giorni dopo la denuncia di scomparsa, e in altre due annotazioni di fine aprile lui e Tasca riportano che non c’erano novità circa il sequestro di Minguzzi: «Era una prassi, siccome non c’era niente...», è la replica dell’imputato. Quella stessa formula la riportò anche nel foglio di servizio dell’1 maggio. Giorno in cui dalle acque del Po di Volano riaffiorò il cadavere.

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