Oggi a Riccione i funerali della nonna uccisa. La lettera della figlia

Rimini

RIMINI. Si svolgeranno oggi alle 15.30 nella parrocchia San Martino (viale Diaz) a Riccione i funerali di Rosa Santucci, la donna di 88 anni, aggredita il 7 gennaio scorso dal nipote quarantaduenne, affetto da gravi disagi mentali (difeso dall’avvocato Cinzia Bonfantini). Una tragedia che merita rispetto infinito e trova la sua spiegazione nei dettagli delle cronache, ma nelle le carenze di un sistema (legislativo, sociale, economico, giudiziario) che lascia le famiglie da sole ad affrontare situazioni più grandi.
Nella lettera aperta che pubblichiamo di seguito Laura, figlia di Rosa e madre dell’uomo finito in carcere (nonostante le sue condizioni, a proposito di strutture adeguate) perché considerato “responsabile” della morte della nonna, ringrazia quanti le si sono stretti attorno e stigmatizza le approssimazioni superficiali e i pregiudizi dei media. Un invito alla riflessione rivolto in particolare a quanti, come noi, hanno la responsabilità di narrare i fatti, ma anche il dovere di interpretarli alla luce del disturbo mentale sforzandosi di non ledere mai la dignità delle persone coinvolte.

«Quando la vita ci sorprende, mettendoci di fronte ad eventi drammatici come quello che si è abbattuto su di me e sulla mia famiglia, il dolore che si prova è indescrivibile. Ci si avverte come pietrificati, annichiliti, da una sofferenza che ci impedisce di reagire, dove solo il pensiero di continuare a vivere appare pressoché impossibile.
Piangere una madre e un figlio nello stesso tempo è devastante. Ma la fiamma della vita che abita dentro di noi, insieme alla fede e all’amore delle persone care, ci danno la forza di andare avanti, pur nella consapevolezza che non ci potrà mai essere rassegnazione e consolazione. Due vite spezzate, quella di una nonna e di un nipote, uniti dalla sofferenza. La prima, quella di mia madre, una lunga vita trascorsa serenamente nella gioia della famiglia e degli affetti più cari, i figli, i nipoti e i pronipoti. Un’esistenza gratificante vissuta attraverso il lavoro, il volontariato, la collaborazione con la chiesa e tanti altri interessi che hanno arricchito il suo tempo di vita. Negli ultimi anni, in seguito anche alla morte di mio padre, le sue condizioni di salute erano peggiorate, ma il peso più grave era dovuto alla malattia del nipote prediletto.

Condivideva con me e mio marito questa sofferenza cercando a suo modo di essere di aiuto. Era consapevole delle difficoltà che stavamo affrontando e, che, il carico emotivo, la gestione della casa e della grave situazione causata dalla malattia di Alessio ricadeva totalmente sulle nostre spalle. Si viveva tutti nella stessa casa anche se in due appartamenti separati, utilizzando indistintamente gli spazi, cercando di sostenerci a vicenda. Diverso il destino di mio figlio, con lui la vita non è stata generosa; la malattia ha segnato inesorabilmente la sua esistenza precludendogli quelle gioie e quelle soddisfazioni di cui ogni essere umano dovrebbe godere. Una malattia, la sua, iniziata diciassette anni fa e che si è aggravata negli ultimi anni. Da tempo portava dentro di sé una disperazione senza speranza , una persona persa nel suo dolore. In uno stato emotivo che non gli permetteva di riconoscere i propri sentimenti, arrivando a confondere e non riconoscere, negli ultimi mesi, i propri familiari, scambiandone i ruoli e i nomi. Aveva smarrito la propria identità, quel bisogno vitale e assoluto di cui ogni essere umano necessita per non sentirsi perduto. La sua era una vita senza sole, dove il vuoto e il buio era penetrato nel profondo della sua anima. Né le cure e neppure l’amore e il sostegno della famiglia hanno attenuato la sua disperazione e il suo dolore, ormai senza contenimento.

Nei giorni successivi alla disgrazia, tante le domande che mi sono fatta cercando invano delle risposte a questo dramma, che non ho trovato se non nell’imprevedibilità del fato, o semplicemente in quel limite umano che ci impedisce di porre rimedio e di comprendere la complessità della mente e il grande mistero della vita. Per me e per la mia famiglia questo è il tempo del pianto e del dolore vissuto nel silenzio, dove le parole faticano a trovare un’espressione e restano dentro di noi. Chiusi nella nostra disperazione ci siamo ritrovati proiettati in una dimensione irreale, sotto il peso di una pressione mediatica dalla quale non abbiamo potuto difenderci. La nostra disgrazia è stata raccontata ampiamente attraverso la stampa che ha speso centinaia di parole riempendo intere pagine di giornali. Una narrazione selvaggia piena di inesattezze, di equivoci e di interpretazioni, che ha perso di vista la tragicità dell’accaduto. La morte di una persona e il dramma della malattia. Chi scrive ha una grande responsabilità che non è solo quella di informare e divulgare notizie in modo esaustivo e reale, ma ha un compito ancora più nobile, quello di educare e di dare voce, attraverso la parola, alla verità.
Senza perdere mai di vista quella saggezza interiore: Le parole possono emozionarci, renderci felici, gratificarci, ma se usate male possono arrecare dolore, rabbia, sconforto. In queste narrazioni giornalistiche mancavano quelle parole umane per descrivere una tragedia meritevole di comprensione, di compassione e di pietà. Ora che questa pressione mediatica si è attenuata, mi auguro si cominci a scrivere una nuova pagina, portando alla luce il dramma della malattia mentale che colpisce tante persone, in particolare i giovani. Una piaga sociale di cui poco si parla e che coinvolge molte famiglie. Mancano leggi adeguate, progetti e investimenti economici che prevedano idonee cure e assistenza. È necessario dare voce a chi soffre e non è in grado di battersi per quei diritti umani indispensabili per vivere una vita dignitosa. A me e alla mia famiglia non resta che invocare la giustizia divina, nella speranza che mia madre possa avere trovato la pace eterna che merita nella luce del Signore. E per mio figlio Alessio, che possa ritrovare quella luce che gli rechi quel sollievo necessario per continuare a vivere e perdonarsi. Confido inoltre in una giustizia umana, che sappia dare risposte adeguate al suo dramma e alla sua malattia. È doveroso infine, da parte mia e della mia famiglia, esprimere un ringraziamento alle tante persone che con la loro vicinanza stanno dando sollievo e conforto al nostro dolore».

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