"Non facciamo solo da mangiare, raccontiamo chi vive il territorio"

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Il bambino che diceva alla mamma, cuoca anche lei, «io da grande prenderò la stella Michelin», ha fatto quello che diceva da piccolo e molto di più. Gianluca Gorini da tempo non è più solo la “promessa”, il “giovane di talento” come per anni lo hanno definito in tanti. È il grande ambasciatore di un territorio, un professionista più che affermato, che sente la responsabilità delle sue scelte, a cominciare da quella di aver trasferito passioni, ambizioni e famiglia in un luogo decisamente fuori dalle rotte consuete dell’alta ristorazione. Eppure non ha certo perso freschezza e voglia di scoperta. Dal primo giugno è ripartito, ha riaperto il suo ristorante-casa a San Piero in Bagno, dieci tavoli «per rimettersi in moto e riprendere l’allenamento», come dice sua moglie Sara Silvani, sempre al suo fianco.

Cinque mesi per studiare

Alla vigilia della riapertura, giornata degli ultimi test su piatti e abbinamenti prima di “andare in scena”, il fermento in cucina e in sala è palpabile. Nessuna ansia, ma la serenità di chi può ricominciare a fare il proprio lavoro, consapevole inoltre di aver sfruttato il tempo sospeso di questo ultimo lockdown con positività, lasciando da parte l’angoscia e anzi rafforzando idee, andando alla scoperta di nuove materie prime, lavorando in squadra sugli ingredienti del nuovo menù. «La possibilità di concedersi del tempo è un lusso incredibile per noi che siamo sempre in movimento, un lusso che abbiamo cercato di sfruttare con grande positività», racconta lo chef spiegandoci come ha vissuto questi ultimi cinque mesi con il suo locale chiuso, e le cucine aperte a singhiozzo per i delivery in qualche occasione speciale. «Abbiamo avuto modo di capire, ancora di più, che dietro il lavoro che facciamo noi in cucina c'è un mondo che merita di essere scoperto e raccontato – dice lo chef –. Pensiamo di esserci sempre sforzati di farlo, ma questo periodo ci ha permesso di andare fino in fondo, allacciando nuovi rapporti di lavoro e insieme umani. Abbiamo visitato tante piccole realtà che producono, caseifici, acquacolture... luoghi dove ci sono persone che allevano e custodiscono sapori per noi importanti. Poi quello che abbiamo scoperto lo abbiamo filtrato con le nostre sensibilità portandolo nel menù che vedrà la luce dopo tanti mesi». Insomma, se inizialmente sconforto c’è stato, è stato elaborato e trasformato in nuove preziose scoperte «che ora ritroviamo sotto forma di nuova energia e che siamo sicuri trasmetteremo al momento della riapertura, quando faremo con i nostri piatti un racconto ancora più profondo».

Nuove scoperte

In questa narrazione per sapori ci saranno i formaggi della Fattoria Trapoggio di Santa Sofia, nella vallata a fianco, o le trote del Mulin di Bucchio nel Casentino. Perché più all’Appennino ci guardi dentro, e sempre più scopri nuove risorse. «È incredibile la ricchezza di questi luoghi – continua a sorprendersi lo chef –. Ad esempio alla fattoria Trapoggio sono rimasto colpito profondamente, non solo perché i loro prodotti sono eccezionali, ma soprattutto perché c'è dietro una famiglia che da quattro generazioni fa formaggi e oggi Genny, due figli e 30 anni, si è presa la responsabilità di fare cose nuove, ad esempio prendere quindici bufale e farle pascolare insieme agli altri animali. In Casentino invece ho conosciuto Andrea Gambassini e Alessandro Volpone che hanno recuperato un antico impianto di acquacoltura. All’inizio si sono occupati solo di ripopolamento dell’Arno, sono riusciti a far schiudere le uova dei barbi tiberini quasi estinti, poi si sono aperti alla vendita di trote allevate e stanno lavorando su salmerini e anguille. Oggi va di moda parlare di biodiversità e sostenibilità, ma io in tutte queste persone ho trovato concretezza. Ho conosciuto gente che si sveglia la mattina e vive la propria giornata per una causa ben precisa che non è solo vendere delle trote, in questo caso, ma salvaguardare un territorio. Sento di avere in comune con loro non solo l’età, ma un obiettivo. E oggi penso che se fossi rimasto sempre chiuso nel ristorante anche in questi mesi forse non avrei avuto la possibilità di conoscerli».

Gioco di squadra

Quando Gianluca Gorini usa il “noi”, è una prima persona plurale reale. Comprende sempre la moglie Sara Silvani, «la mia prima critica» scherza lui ma mica troppo, e tutti i ragazzi della brigata, in parte nuovi arrivi in parte compagni di lavoro consolidati. Eccoli: Gianluca Durillo, il suo secondo, e con loro in cucina Filippo Ballani, Simone Martuzzi, Alex Pedersoli, Luca Muti. In sala Sara Silvani, il sommelier Raffaele Izzo, Fabrizio Angelini e Matin Indijaie. Dietro le quinte «la Mitica e la Gigia» che tengono a posto la cucina. Ciascuno di loro ha messo un tassello, anche nella creazione dei nuovi piatti. Con tutti loro lo chef sente di condividere un impegno e una responsabilità.

Attenzione all’Appennino

«A settembre saranno quattro anni che mi sono trasferito qua con Sara e mio figlio Giulio –riflette Gianluca Gorini –. Se penso alle paure e alle ansie iniziali, senza considerare la pandemia che non avevamo neanche previsto, penso che ci è voluta anche un po’ di sana follia e oggi quella follia la vedo trasformata in soddisfazione e gratificazione e sento sempre più forte lo stimolo per tornare in cucina a raccontare chi siamo oggi.Mi sento ancora più responsabile verso altre realtà che so benissimo cosa fanno intorno a me. Questi luoghi non sono sconosciuti, sono solo poco raccontati, però credo che le persone se ne stiano accorgendo sempre di più di questa bellezza e di questa autenticità. Io spero che questo accada anche grazie al lavoro che fanno i produttori che ho conosciuto e al lavoro mio e di altri cuochi come me. Perché sono convinto che stando qui noi non facciamo solo da mangiare». Quando Gorini si trasferì a San Piero quattro anni fa sembrava avere già ben chiaro quello che cercava: autenticità nel poco tempo trascorso, peraltro interrotto da un evento mondiale che ha spazzato via entusiasmo e molta impresa ristorativa ai quattro angoli del pianeta. Lui sembra essersi rinsaldato in quella sua idea di partenza e dunque nella certezza di voler restare dove è, di aver trovato il proprio posto. «La Regione sta investendo tantissimo in pubblicità su questi territori, sta stimolando giovani a tornare e spero che andando avanti questo sentimento diventi più forte perché qua è semplicemente... bellissimo. Se le persone fanno 300 chilometri per venire da noi a mangiare, poi magari dopo che glielo abbiamo fatto assaggiare e raccontato, vanno anche a visitare il luogo dove un certo prodotto è stato fatto, questo significa generare e tramandare cultura. Far conoscere delle realtà permette di tenerle vive e nutrire la loro quotidianità. Io mi sento responsabile, la visibilità che noi cuochi abbiamo oggi non può essere fine a se stessa, serve a far conoscere un territorioe chi lo vive e credo che questo si respiri quando si viene nel nostro ristorante, di sicuro è quello che vorrei».

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