"Noi albanesi e quel viaggio della speranza di trent'anni fa" Video

Qualche mese prima, nel 1990, ci aveva provato con la Grecia, poco distante dalla sua Voskopoje, la città natale nei paraggi di Korce. Ore e ore di camminate fra le montagne, il confine superato sotto i colpi dei kalashnikov, ma dopo neanche una settimana il rimpatrio nel Paese delle Aquile. All’inizio di marzo del 1991, fu un altro confine, molto più esteso e geograficamente impervio, a dargli la libertà: il mare Adriatico.
Roland Bani è uno dei tantissimi albanesi, migliaia e migliaia, che la sera del 7 marzo 1991 sbarcò in porto a Brindisi aprendo di fatto l’emigrazione allora proibita fra le due sponde. Trent’anni esatti dopo, sfoglia il libro dei ricordi nell’appartamento di Villa Verucchio in cui vive insieme al fratello Aldo e parte proprio da quei giorni.

Bani, come nacque il viaggio della speranza in Italia?
«La dittatura di Hoxha non c’era più, ma il regime sì e non si poteva lasciare il Paese. L’anno precedente, in 500 avevano trovato rifugio nelle ambasciate ed erano riusciti a farlo aprendo una breccia, ma da allora le strade erano pattugliate dai carri armati e i porti chiusi. Sembrava impossibile. Fu mio zio, un professore, a dire a me e suo figlio che in televisione aveva sentito che da Durazzo si riusciva ad arrivare in Italia. Non ci abbiamo pensato un attimo. Avevo il passaporto - cosa quasi impossibile a quei tempi e riservata ai calciatori e pochi altri - lo misi in tasca insieme a un po’ di dollari e ci provammo. Insieme a noi c’era anche un amico d’infanzia».
Che situazione trovaste a Durazzo?
«Con tutti quei militari all’ingresso, già era un’odissea arrivare alle banchine ma in un modo o nell’altro si passava: allungando un po’ di soldi, regalando un orologio. Ci fu anche qualche soldato che gettò via il fucile e si unì a noi. Lì, c’era un cargo panamense enorme che doveva ancora scaricare il carico, in centinaia lo hanno convinto e siamo saliti a bordo in migliaia. Era incredibile guardarsi intorno, quella nave sembrava una città. Ma alla fine fu quasi una passeggiata rispetto ai colpi di fucile mentre passavo di corsa il confine della Grecia: tutta quella fatica e quei rischi per essere ricacciato indietro dopo qualche giorno».
In Puglia il clima fu completamente un altro.
«Arrivammo a Brindisi di sera e il porto era pieno di elicotteri, forze dell’ordine, fari. Qualcuno iniziò anche a buttarsi in acqua per raggiungere terra dalla paura non ci facessero scendere, invece fummo accolti in maniera incredibile. Passammo la notte lì e la mattina, dopo aver girato la città fin dall’alba, il vescovo Settimio Todisco chiamò il prefetto e gli disse: “Se lei non apre subito le scuole all’accoglienza, io stasera aprirò tutte le chiese ai profughi”. La Prefettura requisì decine di elementari e medie e per una settimana quelle e le loro palestre diventarono le nostre case. Poi ci hanno trasferiti in varie strutture e sono stato in un villaggio turistico a Rodi Garganico ancora chiuso visto il periodo. Ci sono rimasto un mese, perché la mia fortuna è stata sapere un po’ di italiano e nel giro di poco ho iniziato ad avere opportunità».


Dove l’aveva imparato?
«Grazie alla passione per il calcio e per il Milan di Sacchi. Seguivo sempre alla radio “Tutto il Calcio Minuto per Minuto” e la domenica guardavo “90° Minuto”. Quando si è saputo, sono diventato ricercato come l’oro dalla Questura e aiutavo i poliziotti a far fare i documenti a tutti gli altri. Non è come oggi, nel giro di poco tempo ce li fecero a tutti: ho ancora il codice fiscale cartaceo di San Severo datato 8 maggio 1991, il permesso di soggiorno e il libretto del lavoro di Foggia. E a giugno già lavoravo in regola in Romagna».
Come ci è arrivato?
«In Puglia avevo iniziato a dare una mano alla Croce Rossa e uno dei responsabili mi ha chiesto più volte di restare con loro, ma a fine primavera ho deciso di venire verso Rimini e mi sono sistemato in un albergo a Maiolo. Qui ho conosciuto una ragazzina di 18 anni (sono del 1967 e allora non ne avevo neanche 24), che mi ha presentato la mamma impiegata all’ufficio del lavoro di Novafeltria. Fu questa donna a suggerirmi di presentarmi a Torello al Gruppo Carli, dove cercavano stagionali. L’ho fatto, ho iniziato subito in officina e a settembre quando dovevo smettere, il capo, Alfredo, mi ha chiamato e mi ha detto “per me sei ok, se vuoi, puoi rimanere”. Ci ho lavorato 15 anni. Dopo qualche tempo, visto che cercavano altre persone, l’ho detto a mio cugino e lui è ancora lì da 30 anni. I titolari sono persone davvero squisite, in un momento doloroso per un lutto me li sono stati trovati in casa e mi sono stati vicinissimi fisicamente ed economicamente».
Come è stata l’integrazione in Romagna?
«Incredibile. Ho conosciuto quasi subito dei ragazzi della vallata che giocavano insieme a calcio a Verucchio e ho iniziato a uscire e giocare con loro in Terza categoria. La cosa incredibile è che ci è voluto di più ad avere i documenti per tesserarmi (nonostante il presidente telefonasse a Roma quasi tutte le settimane tanto mi aveva preso a cuore) che gli altri che mi avevano fatto. Ricordo che le prime cose che ho comprato in Italia con gli stipendi sono stati una tuta del Milan e gli sci di Alberto Tomba, i Rossignol rossi, al San Marino Vendemoda».
San Marino che è entrato un po’ nel suo destino.
«Sì, quando nel 2005 ho smesso da Carli, ci ho lavorato a lungo nei giornali: allo Sportivo, a Tribuna, come stampatore e per un certo periodo facendo anche le foto e la distribuzione notturna».
Detto di suo cugino, l’amico che era con voi dove è finito?
«Lui è a Roma, è diventato un imprenditore edile».
E la famiglia è ancora a Voskopoje?
«Ci è rimasta mia mamma, con qualche parente. Dalla fine degli anni ’90 mio fratello Aldo vive con me, mia sorella Enkeleda sta invece a Berlino col figlio e il marito».
Guardandosi indietro e a quei giorni di 30 anni fa quale è il primo pensiero che ha?
«Mi sembra ieri e mi sembra incredibile sia passato tutto questo tempo. Trent’anni sono una vita, ma è stata ed è una bella vita, fatta di tanti amici e rapporti che sono una nuova famiglia. Quando torno a casa penso invece a come è incredibile il mondo: oggi sono più gli italiani che vanno là che gli albanesi che vengono qua. Ce ne sono tantissimi, non solo investitori o imprenditori, ma ad esempio anche anche nei call center».

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