Niente Rimini per gli Zen Circus, appuntamento a Villa Inferno il 21

Spettacoli

Cambio di programma per gli Zen Circus: il firmacopie del libro previsto per stasera a Rimini è stato spostato a Villa Inferno (Ravenna), sabato prossimo 21 settembre. Lì saranno ospitati con uno stand i ragazzi del festival Humus in svolgimento a Casa dell'editore a Covignano. Info: 340 5368885

RIMINI. «Un’anti-biografia che è anche il prequel della nostra vita». È così che i toscani Zen Circus definiscono Andate tutti affanculo, il loro primo romanzo uscito per Mondadori il 10 settembre. Il libro, dal titolo del loro primo disco in italiano e scritto insieme a Marco Amerighi, avrebbe dovuto essere presentato a Rimini oggi alle 19 al festival Humus, alla Casa dell’editore (via Covignano, 302).

L'INTERVISTA
Andrea Appino, Massimiliano “Ufo” Schiavelli e Karim Qqru (pseudonimo di Gian Paolo Cuccuru) – voce, chitarra, basso e batteria degli Zen Circus – prestano i nomi e la vita a una storia che potrebbe essere una delle loro canzoni.
La musica come necessità
Il libro racconta il mondo della provincia italiana negli anni 90, prima di Internet e dei social. Un mondo in cui la musica era soprattutto una necessità. Dal primo concerto al primo tour, dai primi innamoramenti ai primi scottanti abbandoni; dalle prime amicizie fraterne alle bugie capaci di farle vacillare. Sullo sfondo di questa storia di prime volte ci sono un’Italia a cavallo fra due millenni, il berlusconismo e le controculture, il G8 di Genova e l’11 settembre.
Karim, come nasce il romanzo?
«L’idea c’era già da anni e ha subito nel tempo continue trasformazioni. Tempo fa ci è stata proposta un’autobiografia, ma abbiamo capito che quella forma narrativa, che pure apprezziamo molto, per noi rischiava di essere troppo didascalica e pericolosa. Dovevamo mettere sul piatto 20 anni di vita, di esperienze vissute da tre persone diverse a un diverso livello emotivo. Ci premeva dare oggettività al racconto. E la strada percorsa per il libro è un po’ la stessa delle nostre canzoni, racconti che mettono al centro le nostre vite».
A discapito del titolo è quindi una storia a lieto fine?
«Il libro si ferma nel 2009 l’anno di pubblicazione del disco omonimo, che ha segnato anche il momento in cui questo è diventato per noi un lavoro vero e proprio. La storia finisce là. Ma quella fine è anche un nuovo inizio, di un periodo più maturo, più consapevole più positivo dopo tanti momenti travagliati. È questa la cifra narrativa del romanzo. Il lieto fine di quel “e vissero felici e contenti” mi ha dato una sensazione di pace dopo 20 anni di mare in tempesta».
Come vi siete sentiti riguardandovi indietro dopo 20 anni?
«Per noi è stato un lavoro bellissimo, emozionante, ma anche drammatico. Raccontare 20 anni di vita significa ripercorrere a ritroso tanti momenti difficili, parlare di persone che non ci sono più».
La vostra storia è anche un po’ il pretesto per raccontare qualcosa di più ampio?
«L’altro personaggio del romanzo rispetto a noi è l’Italia. Il libro da un punto di vista temporale parte dalla strage di Capaci. Poi attraversa il berlusconismo, i fatti del G8. Del G8 per esempio racconto la mia esperienza diretta. Mentre Andrea e Ufo hanno dato l’impronta della loro visione di quei fatti. Poi naturalmente c’è anche la nostra Pisa. È un romanzo di formazione».
Gli anni dei vostri esordi sono caratterizzati dalla voglia di votarsi completamente alla musica. Vi aspettavate di arrivare fino a questo punto ?
«La voglia di suonare era tanta, una voglia ancestrale, quasi immotivata. Abbiamo vissuto vite difficili, il nostro percorso adolescenziale è stato turbolento. La musica a quel tempo ci ha salvati. Non poteva essere un hobby, era una necessità, una questione di vita o di morte. Nessuno allora pensava di farlo come lavoro. Nei primi tempi addirittura accumulavano le multe in autostrada perché non avevamo i soldi per il pedaggio. E quello che guadagnavamo ai concerti serviva per pagare le multe. Suoniamo dall’età di 13 anni e ci abbiamo sempre creduto, non perché pensavamo a una carriera, ma perché non potevamo fare altro.”
Nel romanzo Francesco Motta, che tra l’altro si è sposato da poco con Carolina Crescentini, è protagonista di un episodio divertente: ha nove anni, Appino frequenta la sua baby sitter e un giorno gli insegna alcuni accordi alla chitarra. Tutto vero?
«Siamo stati al matrimonio di Francesco e Carolina, una coppia bellissima. Lo conosco da quando avevo 14 anni e lui 10. Quindi qualcosa di vero c’è. In linea di massima tutto quello che raccontiamo nel libro è vero, però alcuni particolari sono stati leggermente cambiati. C’è qualcosa di romanzato o comunque di edulcorato. Ma solo per aggiungere più poesia ad alcune parti di racconto».
Anche quando parlate dell’epidemia di eroina che ha afflitto i ventenni di allora è un fatto tragicamente reale.
«Quell’epidemia ha devastato una generazione. È la parte più tragica della nostra storia e anche la più difficile da scrivere, per motivi personali e per il mondo che avevamo intorno. Una parte delicatissima e dolorosa. Forse però siamo riusciti a parlarne con tatto, senza edulcorarla. Chi ha vissuto quel periodo sa cosa vuole dire. Tanti dei miei amici non ci sono più. Noi ci siamo salvati grazie alla musica, ma purtroppo non è stato così per tutti. Sarebbe stato forse più facile e più redditizio concentrarsi sull’ argomento senza usare il minimo tatto. Invece abbiamo cercato di farlo in punta di piedi. Tagliarlo fuori completamente era impossibile perché è il clima in cui siamo cresciuti. E il libro è una sorta di ricerca della verità. Non potevamo astenerci anche se è difficile, quando si parla di se stessi».
Dopo questo romanzo in futuro vi cimenterete in altre forme di racconto?
«Il romanzo lo abbiamo vissuto come una nostra canzone, un racconto di noi tre e del contesto che ci circonda, in un forma molto empatica, che ci ha sempre consentito di creare un canale emotivo con il nostro pubblico in uno scambio bellissimo di dare e avere. Il romanzo non è altro che una canzone solo in un arco temporale più ampio. Non escludiamo quindi di dare spazio a forme espressive diverse per continuare a raccontarci».

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