Basket, la bella favola di Spiro Leka: "Io, un minor che ce l’ha fatta"
La svolta con Spiro
L’uomo che ha cambiato il volto della squadra estense è Spiro Leka, 59 anni albanese con 7 scudetti e 4 Coppe d’Albania vinte tra il 1984 e il 1991 vestendo la maglia del Partizani Tirana. Aveva appena 26 anni quando decise di smettere di giocare e trasferirsi in Italia, a Pesaro, e da lì è iniziata la sua lunga gavetta a cavallo tra Marche e Romagna. Un percorso che a leggerlo oggi è quello di una bella favola di pallacanestro culminata con la salvezza in A da capo allenatore della VL Pesaro provenendo però posti cestisticamente “minorissimi”: Fano, Sant’Angelo in Vado, Montecchio, Basket Stella Maris e una lunga e fortunata parentesi (dal 2003 al 2009) tra Morciano, San Marino e Santarcangelo. Insomma, il prototipo del tecnico-minors diventato con lavoro e sacrificio un vero allenatore da serie A.
«La definizione mi piace perché mi sento davvero un “minor che ce l’ha fatta” - sorride Leka - sono stati proprio quegli anni e quelle 500 e passa partite nelle categorie inferiori a costruire le mie certezze come tecnico e come uomo che, per così dire, impara dalla strada. Sono un po’ come Andrea Capobianco: ho partecipato a tutti i campionati eccetto la serie B e ne ho anche vinti cinque, compresa la C2 a Morciano. Pensate che poi in C1 partimmo 0-5 e mi si diceva che non potevo lavorare a quel livello. E invece poi ne vincemmo 19 e sfiorammo la promozione».
Il salto in A2 e il Bancoroma
Guidare in A Pesaro (di cui dal 2010 è stato coach nelle giovanili e poi assistente) e in A2 Ferrara, è un’altra cosa però. Tremano i polsi? «Non a me, perché tutta questa gavetta ha fatto sì che alla mia prima partita da head coach di Pesaro non sentii emozioni particolari. Cambia tanto, è vero, ma le dinamiche di fondo sono sempre le stesse e quelle le impari ad affrontare nelle palestre dove c’è davvero da sbucciarsi le ginocchia».
Come in Albania negli anni ’80 dove Leka era una “stella” e giocò due gare contro il Bancoroma nel 1983-1984: l’anno in cui Roma vinse la Coppa dei Campioni. «Avevo 18 anni, eliminammo Bratislava arrivando tra le 12 migliori d’Europa, poi giocai 5’ al PalaEur. Venimmo travolti (93-55 ndr) ma fu incredibile essere al cospetto di gente come Larry Wright. Fu addirittura pazzesco quando a fine gara dei tifosi chiesero l’autografo a me, ragazzino del Partizani e io risposi “ma perché?”. Capii cos’era il basket in Italia. Poi ho giocato in Coppa contro Pau Orthez, Aris, ma quell’esperienza resta indimenticabile».
E ora dovrà giocare nel tempio del basket romagnolo. «Forlì è costruita per altri traguardi e speravo di affrontarla prima che uscisse dal tunnel. Ci serve la gara perfetta. Certo, adesso siamo più fluidi, fermiamo meno la palla e ci coinvolgiamo di più in attacco: ci abbiamo lavorato su, ma io arrivando a Ferrara, ho cercato solo di essere il medico che per un prelievo sta attento a non sbagliare vena».