Elio Ghelfi: «Ecco come fu che diventai un allenatore...»

Rimini

RIMINI. Passato e presente che si incontrano. Quando il primo giugno ha compiuto 80 anni, Elio Ghelfi, ha scoperto i piaceri di Facebook. Sul suo “passivo” profilo è arrivata un’ondata di affetto che lo ha commosso. Un vero e proprio tributo per un allenatore che ha fatto grande la boxe romagnola e non solo. Elio, prima di diventare allenatore però lei è stato pugile. «Sì, un buon pugile, un buon tecnico... Ma non avevo il pugno e nemmeno il coraggio. Passato ai professionisti feci 5 incontri e 5 sconfitte e siccome mi funzionava ancora il cervello decisi di smettere». Tutto finito? «No. Mi ripresentai in palestra per tenermi in attività e di tanto in tanto mi piaceva dare consigli. Fu così che Aroldo Montanari mi chiese di dargli una mano e mi ritrovai allenatore. Altri tempi... arrivavano ragazzi coi panni sporchi di cemento o la tuta nera della fonderia». Per molti di loro la boxe fu una salvezza. «Beh, non si può dire che tutti i ragazzi della palestra fossero dei potenziali delinquenti. Ma in certi casi il discorso può essere valido. Le più diffidenti erano le mamme ma più di una volta mi capitò di essere da loro ringraziato o pregato di riprendere il figlio in palestra perché avevano capito il lavoro che facevamo con loro». Le piace ancora la boxe? «Mi piaceva allora e mi piace ancora adesso. Tanto...» Le piace tutto? «Se parliamo di oggi, mi sembra che ci sia un’attività blanda mentre il pugile cresce solo se ci sono i match... Se parliamo di ieri, c’era l’abitudine di sostituire la tecnica con la confusione, con la rissa. Il contrario di quel che cercavo io che puntavo molto sulla scherma del pugile. Quando vedevo combattere Maurizio Stecca mi venivano le lacrime agli occhi! Ma anche Loris, che aveva il pugno duro, lavorava benissimo di tecnica». Per non parlare di Francesco Damiani (divenuto poi allenatore della squadra olimpica italiana) che è riuscito a diventare campione mondiale dei pesi massimi (titolo Wbo), unico italiano insieme a Primo Carnera. «Damiani? Il più intelligente, un pugile a cui devo molto». Il momento in cui si è sentito più soddisfatto? «Fu quando Alfio Righetti diventò campione italiano. Lui era la grande promessa e io, poco conosciuto, ricevevo critiche. C’è una foto subito dopo la vittoria che mostra tutta la mia gioia. Un momento esaltante». Righetti poi arrivò alla semifinale mondiale con Leon Spinks che lo batté e poi andò a sconfiggere nientemeno che Cassius Clay, che a Las Vegas era tra il pubblico... «E pensare che alla settima ripresa lo colpì duro e lo mise alla corde, Spinks era imbambolato, e Alfio si fermò solo perché aspettava il conteggio dell’arbitro che non arrivò...» Guardando la vita di molti ex pugili non si può dire che la boxe non lasci dei segni. Qualcuno dice che va abolita. Lei cosa ne pensa? «La boxe fa crescere l’uomo, toglie la timidezza, dà temperamento, offre il valore del sacrifico e della conquista, ma non sono disposto ad accettare che fatta in un certo modo, sbagliato, non faccia male. Può lasciare dei segni e non parlo di quelli estetici. Ci vuole attenzione: il medico sempre a portata di mano, per esempio. Ho vissuto l’episodio della morte di Iacopucci a Bellaria dopo l’incontro con Minter. Attribuire le responsabilità ad allenatori e procuratori è ingiusto. Io nelle palestre che ho conosciuto ho sempre visto che si lavorava con coscienza». A lei è andata sempre liscia? «Avevo un pugile non italiano e lo portai a fare il campionato del mondo in Austria dove vinse. Subito dopo si sentì molto male e mi preoccupai, chiamai il medico ma disse che non era niente. Io comunque, per sicurezza, lo tenni due giorni in ospedale sotto controllo e lì anche il primario ripeté che non aveva avuto nulla ma che avevo fatto la cosa giusta. Sulla salute non si scherza!» Cosa le resta di questi episodi? «Tanti ricordi e tanti insegnamenti... Adesso mi diverto a realizzare una sorta di manuale per la preparazione alla boxe. Raccolgo dai vecchi testi le parti che ritengo interessanti e ho già scritto di pugno mio parecchie pagine: preparazione, alimentazione... Vedremo cosa ne sarà». Adesso va molto di moda l’MMA. «Non mi piace e non la seguo. Non dico non sia un bello sport ma non mi entusiasma, manca il gesto tecnico che piace a me». Alle Olimpiadi di Rio è stato eliminato l’obbligo del caschetto. Lei è favorevole all’uso del caschetto protettivo per i professionisti? «Se obblighi il dilettante a mettere il caschetto è per evitare problemi. Allora spiega quale è la differenza fra la testa del dilettante e quella del professionista. Il primo prende colpi per massimo dieci minuti, l’altro anche per mezz’ora! Non sarebbe certo una scelta sbagliata. Che senso avrebbe obbligare al casco chi va sul Ciao e non chi corre sulla Ducati!». Quante volte i suoi pugili hanno combattuto negli Stati Uniti? «Diciannove volte». Eravate in soggezione? «Beh, le prime volte ero preoccupato e timido. Ma già all’epoca di Righetti, a Las Vegas, prima del match con Spinks, c’erano allenatori che ci avvicinavano e ci facevano i complimenti, accogliendoci di fatto nel loro mondo». Da appassionato di boxe, i pugili che le sono piaciuti di più? «In Italia Duilio Loi: univa tecnica, forza fisica e resistenza. All’estero il più grande: Cassius Clay. L’ho conosciuto di persona... quando è morto ho pensato che nel mondo fosse finito il pugilato... Beh, ci sono andato quasi vicino».

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