«Cesena per me è il calcio»

CESENA. Da quando se n’è andato, nella grigia estate 2008, Fabrizio Castori è tornato una volta sola a casa: 1° ottobre 2012, Cesena-Varese 2-0, campionato di serie B. Quella sera gli fecero la festa tutti: prima lo stadio, poi la squadra. In realtà per l’uomo di Tolentino non fu la prima volta da ex contro il Cesena, perché un anno prima il suo Ascoli sfidò l’improbabile Romagna bianconera di Giampaolo nel terzo turno di Coppa Italia (1-0, Bogdani), ma in fondo quella sera si giocava allo stadio Olimpico di San Marino e migliaia di tifosi erano ancora spalmati sui lettini in vacanza. Però, nonostante tutto, la prima straordinaria dimostrazione d’amore per l’unico allenatore che ancora oggi al Manuzzi mette tutti d’accordo arrivò proprio in territorio straniero, sulle strade tortuose e in salita della Repubblica di San Marino: «Io non dimentico quei tifosi che aspettarono il nostro pullman e lo fermarono solo per venire a salutarmi. Non eravamo a Cesena, ma fu un gesto bellissimo lo stesso».Nessuno, a Cesena, ha dimenticato Fabrizio Castori e non solo perché ogni tanto capita di vederlo a passeggio nella città dove ha acquistato casa e dove ha lavorato per cinque anni. Cinque anni fotografati fedelmente nell’alfabeto scelto dall’uomo di Tolentino. Per rispolverare i ricordi, in fondo, bastano 21 parole.

A SERIE A. «Un’esperienza bella, intensa ma anche molto amara e che mi ha lasciato un retrogusto particolare per come è andata a finire, dopo uno strepitoso girone di ritorno nel quale abbiamo totalizzato gli stessi punti dell’Inter. Il confronto con i campioni è stato indimenticabile, così come l’essere riuscito a completare il mio percorso e a chiudere il cerchio: nessuno, tranne il sottoscritto, è riuscito ad allenare in tutte le categorie dalla Terza alla serie A. E ora che non esiste più la C2, nessuno potrà battere questo record».

B BOCCHINI. «Per me Riccardo è un figlio. Abbiamo cominciato insieme quando lui aveva una ventina d’anni e poi me lo sono portato dappertutto. Nessun giocatore, sul campo, è riuscito a reincarnare il mio spirito e i miei concetti come ha fatto lui. E poi, a livello difensivo, non avevo bisogno di spiegargli nulla perché sapeva perfettamente quali movimenti chiedo ai miei giocatori. Io ero il mandante e lui l’esecutore dei miei insegnamenti».

C CESENA. «Cesena per me è il calcio, nel senso vero: passione, competenza, organizzazione, mentalità, calore. A Cesena c’è tutto quello di cui hanno bisogno un giocatore o un allenatore. Mi ha insegnato tantissimo e sono orgoglioso di aver fatto il primo salto nel calcio vero proprio lì, dove ho anche comprato casa e dove ho un sacco di amici».

D DOLORE. «Mi viene in mente Lumezzane e quella lunga squalifica, che però è niente in confronto alla perdita di alcune persone speciali che ho avuto la fortuna di conoscere in Romagna: Edmeo Lugaresi, Donatella Pransani, Tonino Batani, Enrico Zavalloni e Vittorio Calbucci. E purtroppo anche Guido Mariani della Croce Rossa. Ci eravamo sentiti poco più di un mese fa, quando sono usciti i calendari. Mi disse. “Guarda mister, non so se riusciremo a vederci quando torni a Cesena”. Purtroppo ha avuto ragione».

E EDMEO. «Mi voleva molto bene e mi paragonava spesso ad Osvaldo Bagnoli, senza dubbio il miglior complimento che mi potesse fare. Ricordo un migliaio di aneddoti, a cominciare dal fatto che non si perdeva un allenamento. Il lato umano di Edmeo era straordinario, ma non era solo un presidente affettuoso e premuroso. Era anche e soprattutto un uomo competente».

F FOSCHI. «Mi sento una scoperta di Rino e di questo vado orgoglioso. Gli devo tantissimo, perché è stato lui a scoprirmi a Lanciano e a volermi a Cesena. Sarei dovuto venire un anno prima, ma avevo dato già la mia parola al presidente del Lanciano, quindi arrivai nel 2003 e la scintilla scattò subito, anche se Rino lavorava a Palermo. Siamo nati lo stesso giorno: l’11 luglio, quando festeggiamo il compleanno, non ce n’è per nessuno...».

G GADDA. «Massimo è un ragazzo educato, intelligentissimo e sempre disponibile. Come dissi ai tempi della nostra convivenza sulla panchina del Cesena, io ero il vulcano e lui l’estintore. Eravamo e siamo due persone completamente diverse, però l’intesa è scattata subito. Nel lavoro sul campo è stato fondamentale».

H HENNING. «Lo cito simbolicamente, perché incarna perfettamente la globalizzazione di Cesena. Questa squadra non è amata solo in città, ma dappertutto, addirittura in Germania. Ricordo che nel 2004, la sera della finale di Coppa Italia a Busto Arsizio, c’era anche lui sotto quel diluvio assieme ad altri 350 tifosi. E ricordo bene che ci portò le magliette celebrative direttamente dalla Foresta Nera».

I IGOR. «Con Campedelli ci siamo solo sfiorati. Ha rappresentato il cambiamento, aziendale e di mentalità, del Cesena. Sinceramente, in quella nuova realtà, ho fatto molta fatica».

L LUGARESI. «Il mio presidente per 5 anni. Di Giorgio ho imparato ad apprezzare innanzitutto la discrezione, una qualità difficile da trovare in un presidente, soprattutto ad alto livello. Non è mai stato un presidente invadente e con la sua educazione mi ha sempre messo a suo agio. Inoltre, non posso dimenticare la cosa forse più importante dal punto di vista professionale: decise di confermarmi nonostante la squalifica, una scelta coraggiosa alla quale nessuno credeva».

M MOGLIE. «Sto con Paola da quando avevamo 14 e 16 anni, ci siamo conosciuti a scuola e sposati a 42 anni. Ha vissuto la città di Cesena come me, facendosi coinvolgere e travolgere dalla passione dei tanti amici che abbiamo avuto l’onore di conoscere. E’ stata lei a darmi fiducia e ad appoggiare la mia carriera da allenatore: con tre figli avevo paura di lasciare il lavoro e di rischiare con il calcio, ma lei mi ha dato la spinta decisiva e mi ha fatto credere nelle mie qualità. Senza il suo appoggio, oggi non sarei un allenatore».

N NONNO. «Luca di 5 anni e Cloe di 3 sono uno spettacolo. Non mi sento vecchio perché sono diventato nonno, ma casomai mi sento orgoglioso. Questo status mi ha regalato un sacco di emozioni indescrivibili e, quando posso, vado a casa solo per giocare con i miei nipotini».

O OROGEL STADIUM. «Quel nome all’inglese è un segno dei tempi che cambiano, però il fascino del Manuzzi rimane unico. Entrare là dentro ti regala sensazioni incredibili e ora che non ci sono più le barriere, beh, lo stadio è ancora più accogliente».

P PROVINCIA. «Il mio calcio è questo e nell’aggettivo provinciale mi identifico con grandissimo orgoglio e senza vergogna, proprio perchè i miei principi arrivano dalla provincia: cultura del lavoro e del sacrificio, fatica, corsa, sudore. Questa è la storia della mia carriera e sono convinto che non sia un limite ma, casomai, un esempio. E poi lo sapete che a me i fighetti che non corrono proprio non piacciono».

Q QUOTIDIANI. «Il mio rapporto con i media e i giornalisti? Innanzitutto, posso dire che leggo praticamente tutto. Quelli che sostengono di non aprire mai i giornali, di solito dicono una bugia. Credo sia doveroso tenersi aggiornati ed informati su tutto, a maggior ragione sulla squadra che alleni e sul campionato nel quale militi. In questi anni ho imparato a prendere alcuni articoli con il giusto spirito e a dare la giusta importanza».

R RIMINI. «L’avversario storico, il derby che non poteva mai mancare, la grande classica. Il più bello? Facile: quello vinto 3-2 dopo essere andati all’intervallo sotto di due gol al Manuzzi. Ricordo ancora quando Confalone, qualche giorno prima della partita, mi disse in allenamento: “Mister, non sto bene ma contro il Rimini voglio giocare, anche in porta”. Era stato buon profeta, perché nel finale prese il posto di Indiveri. Ma di quei duelli con il Rimini tengo a ricordare un’altra persona che oggi non c’è più: Vincenzo Bellavista. La rivalità era sentita, ma io non dimentico il rispetto e l’educazione con cui siamo stati accolti dalla famiglia e dai tifosi biancorossi nel giorno del funerale».

S SAN PATRIGNANO. «Un’esperienza forte e profonda, un rapporto intenso e totale. Quando entri in quel sistema, poi difficilmente riesci a staccarti. I ragazzi di Sanpa mi hanno dato tantissimo e grazie a loro ho capito quali sono le vere difficoltà della vita».

T TORINO. «Se ripenso al Toro, ripenso alla grande ingiustizia subita nei play-off 2006 e a una delle partite migliori giocate in assoluto dal mio Cesena. Il rimpianto per quella eliminazione resta anche oggi, ma quella partita fu il coronamento di una stagione favolosa con una squadra composta per metà da giocatori cresciuti nel settore giovanile».

U UMILTÀ. «Un’altra parola che ha accompagnato la mia carriera e la mia vita. Sono contento che molti addetti ai lavori la uniscano al mio nome, perché è uno dei cardini del mio pensiero e della mia filosofia. E’ così anche il mio calcio: umile, dispendioso ma spesso redditizio. Quando arrivai a Carpi, fui chiaro fin dal primo giorno: “Mi bastano calciatori umili e che abbiano voglia di correre, non prendetemi i fighetti”. Oggi i tifosi mi chiamano Cholo, come Simeone. Non potevano scegliere un nome più efficace».

V VERNOCCHI. «Per raccontare il mio rapporto con Marino probabilmente non basterebbe un libro. E’ un amico, quasi un fratello. Lo associo al gabbiotto e a quella fantastica avventura condivisa nella tribuna del Manuzzi durante la mia squalifica. Là dentro ne abbiamo passate tante, però l’abbraccio dopo il gol del 2-2 di Confalone contro il Genoa è leggenda: quella sera abbiamo rischiato di volare di sotto ma per fortuna ci siamo fermati in tempo».

Z ZONA. «E’ il primo concetto caro a quelli che sono stati i miei due maestri: Arrigo Sacchi e Zdenek Zeman. Non nascondo di essermi ispirato a entrambi, due eccellenti innovatori che hanno fatto la storia di questo meraviglioso sport».

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