A Cesena Di Carlo si sente a casa

CESENA. «Buongiorno Di Carlo, sono Rino Foschi. Cosa ne pensa del Cesena?». Era l’8 dicembre 2014 e tutto cominciò con una telefonata all’ora di pranzo. Due mesi e mezzo dopo, ecco 50 sfumature di Mimmo.

Di Carlo, cominciamo da quel lunedì. Cosa disse a Foschi?

«Spiegai il mio pensiero e dove sarei intervenuto per provare a migliorare la squadra. Lui mi disse: “Quindi saresti disponibile?”. E io: “Certo, per me Cesena è il posto ideale”. Intorno alle 18 mi richiamò per dirmi che avevano scelto me: io, nel frattempo, avevo riempito la valigia ed ero già arrivato a Bologna».

Era partito ancora prima di ricevere l’ultima chiamata e il sì definitivo?

«Proprio così. Dissi a mia moglie: “Io parto, poi al massimo torno indietro”. In un’ora e un quarto sono arrivato a Cesena e Rino quasi non ci credeva: “Ma ci vuole così poco da Vicenza?”. Questa cosa non gliela avevo mai detta, da oggi la sa anche lui».

In questi mesi, qual è l’aspetto di Cesena che l’ha colpita di più?

«La gente. Mi ha sempre dato fiducia. Vi garantisco che arrivare dopo Bisoli non è stato facile e in fondo vi capisco, ma ho provato a calarmi immediatamente nella realtà e oggi posso dire di esserci riuscito».

È vero che vive in un agriturismo assieme al suo staff?

«Sì, al Colle. Sono amici del presidente e mi hanno immediatamente trasmesso il calore della Romagna».

Quando ha capito che avrebbe fatto l’allenatore?

«Quando giocavo. Soprattutto negli ultimi anni di carriera avevo sempre un pensiero fisso: provare ad anticipare le mosse del mio allenatore. Così, alla fine degli allenamenti, restavo in campo e provavo ad entrare nella sua testa. Il giorno successivo, al campo, spesso indovinavo in anticipo le esercitazioni che ci venivano proposte».

Se dovesse chiudere per un attimo gli occhi, quale allenatore del passato le verrebbe in mente?

«Innanzitutto Pino Caramanno: con lui a Palermo, nel 1988, vincemmo la C2 in scioltezza. Fu il primo ad insegnarmi non solo a difendere ma anche ad attaccare. Poi ovviamente Ulivieri e Guidolin, che mi hanno dato un’impronta tecnica, tattica e mentale. Grazie a loro sono diventato prima un calciatore e poi un allenatore».

Gioco di memoria su alcuni momenti della sua carriera: cosa successe il 29 maggio 1997?

«Una provinciale (il suo Vicenza, ndr) vinse la Coppa Italia. Fu il momento più bello della mia carriera da giocatore, ancora più emozionante del debutto a San Siro contro l’Inter a 31 anni».

Passiamo al 16 aprile 1998.

«Coppa delle Coppe, semifinale di ritorno Chelsea-Vicenza. Dopo l’1-0 dell’andata, passiamo in vantaggio anche a Stamford Bridge e segniamo anche il 2-0, che ci viene ingiustamente annullato. Nella ripresa il Chelsea fa 3 gol e ci elimina. Sono ancora arrabbiato con Dicara per l’errore sulla rete del 3-1 di Hughes».

Dal calciatore all’allenatore: si ricorda cosa accadde il 12 giugno 2006?

«Purtroppo sì: dopo due campionati vinti, quella sera a Torino il Mantova avrebbe meritato di vincere anche il terzo e di andare in A. Purtroppo successero delle cose strane e non fu possibile, anche se il tiro di Gasparetto che sfiora il palo al 120’ non l’ho ancora dimenticato».

Da giocatore, qual è l’avversario più forte che ha incontrato?

«Rui Costa e Zidane. Le prime due volte contro di loro furono sportivamente drammatiche, tanto che il portoghese mi consegnò addirittura il pallone a fine partita dicendomi: “Tieni, così finalmente lo puoi vedere”. Poi, però, dalla seconda volta sono riuscito a prendere le misure».

E se dovesse scegliere un tecnico?

«Ancelotti e Del Bosque. Perché hanno vinto tantissimo senza mai essere arroganti ed alzare la voce».

Un allenatore conta di più in una squadra provinciale o in una big?

«Nella provinciale devi creare una mentalità, nello squadrone devi saper fare rispettare le regole anche ai fuoriclasse. Conta tantissimo allo stesso modo».

I social network la infastidiscono?

«No, basta che siano utilizzati con intelligenza. Facebook mi sembra un massacro, Twitter mi piace: a breve aprirò anche il mio account».

Come annuncia la formazione ai suoi giocatori?

«Dieci minuti prima del trasferimento allo stadio riunisco tutti per una breve riunione tecnica, durante la quale ripassiamo gli schemi e tutte le situazioni provate in settimana. Quindi annuncio formazione e panchina, specificando sempre che chi non parte titolare ha comunque la stessa importanza degli altri e deve rimanere concentrato».

L’intervallo della partita, invece, come funziona?

«Innanzitutto chiedo 3-4 minuti di silenzio per recuperare energie e lucidità, così nel frattempo mi posso confrontare con il mio staff: il mio vice Valigi, ad esempio, durante la gara annota tutte le cose che non funzionano e anche con Santoni parlo tantissimo, perché sei occhi vedono meglio di due. Quindi do le indicazioni alla squadra, coinvolgendo tutti i giocatori. Non è detto che le cose da dire siano di più quando si perde».

Quando apre un giornale dopo la partita, cosa la infastidisce di più?

«Le critiche ottuse di chi non vuole essere costruttivo. Chi invece prova a esserlo, ha tutto il mio rispetto e lo avrà sempre».

Del calcio italiano cosa non sopporta?

«In generale vedo poche famiglie e poca gente serena allo stadio, poi non tollero il razzismo. Per fortuna Cesena è un’isola felice».

Cosa fa nel tempo libero?

«Non posso più correre, perché da calciatore ho esagerato, quindi per sudare l’unica soluzione rimane la bicicletta. L’ho scoperta a Vicenza ed è stato un colpo di fulmine. Qua esco con il magazziniere “Bus” e i suoi amici».

A proposito di colpo di fulmine, è vero che sta con sua moglie dall’età di 16 anni?

«Sì, siamo entrambi di Cassino: il prossimo 2 settembre festeggiamo i 30 anni di matrimonio. Se sono diventato prima un calciatore e poi un allenatore, il merito è innanzitutto suo. Poi, in questi anni, anche le mie figlie Sharon e Naomi mi hanno aiutato moltissimo».

Abitualmente che musica ascolta?

«Mi piace la musica rap, però non chiedetemi i titoli delle canzoni, perché li dimentico subito».

Il suo sportivo preferito?

«Usain Bolt. Un fenomeno. Tra gli allenatori, invece, scelgo Julio Velasco».

L’8 marzo saranno tre mesi a Cesena. Ha imparato qualche parola in dialetto?

«Me ne hanno insegnata una: burdèl. Però quando il presidente e il direttore parlano in dialetto tra loro, non capisco quasi nulla».

 

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