Padre estradato e sottoposto a test del Dna. Nei guai il medico d'accordo per l'aborto

Rimini

 

RIMINI. E’ stato estradato in Italia il 40enne accusato di aver messo incinta la figlia 13enne: l’uomo era stato arrestato due mesi fa in Svezia, dove s’era rifugiato per sfuggire ai sospetti della polizia nonostante la ragazzina abbia tentato di depistare gli agenti non denunciando gli abusi del padre. Gli agenti della Squadra mobile della questura, guidati dal vice questore aggiunto Nicola Vitale, gli hanno notificato l’ordinanza di custodia in carcere e l’hanno accompagnato a Rebibbia. Sarà sottoposto a Rimini, il 14 settembre prossimo, a un test del Dna “diretto”, dopo che è già stata accertata la consanguineità del violentatore, attraverso una prima indagine genetica “indiretta”, su feto e parte offesa. Il cerchio si chiude definitivamente sulla vicenda, già raccontata dal Corriere subito dopo l’arresto in Scandinavia, ma resta in piedi un secondo filone d’inchiesta relativo al tentativo dell’uomo di far abortire la figlia clandestinamente; rischia, infatti, di finire nei guai un medico del Riminese che all’epoca dei fatti, stando a quanto emerso, prestava servizio in una clinica cesenate. E’ indagato perché avrebbe sottoposto al raschiamento la minorenne, dietro pagamento, senza il necessario consenso della madre. Si tratta di circostanze ancora da approfondire, anche perché – nonostante una documentazione che accerta l’intervento - la gravidanza andò avanti, almeno fino all’ottava settimana, quando l’interruzione avvenne nelle modalità di legge in una struttura pubblica.

Nei confronti del quarantenne, di origine sudamericana (ogni ulteriore dettaglio viene omesso per non rendere anche indirettamente riconoscibile la minorenne coinvolta) il Gip del Tribunale di Rimini, Fiorella Casadei, su richiesta del pm Paola Bonetti, emise un mandato di cattura internazionale all’indomani della fuga dello straniero che viveva con la famiglia nel Riminese e lavorava come operaio. Era sparito da Rimini alla vigilia del prelievo di saliva volontario necessario per effettuare il test genetico, al quale aveva accettato di sottoporsi al pari del figlio maggiore. Al contrario del ragazzo, il padre non si presentò alla prova del tampone e sparì senza dare spiegazioni neppure alla moglie, dopo aver prelevato tutto quello che poteva dal conto. Deve rispondere di violenza sessuale aggravata.

La brutta vicenda venne segnalata nell’estate di due anni fa alla polizia dalle assistenti sociali di due diversi consultori (Riccione e Rimini-Celle). La ragazzina, che frequentava le medie, era stata accompagnata dai medici in ospedale perché abortisse. Per procedere all’interruzione di gravidanza c’era però bisogno del consenso anche della madre. «Preferirei di no – protestò il padre – perché mia moglie è una donna all’antica e vorrei risparmiarle questo dolore». Una tesi poco convincente, tanto più quando - dagli accertamenti - risultò che l’uomo aveva già cercato di ottenere clandestinamente il suo scopo. Gli uomini della Mobile, specializzati nel trattare vicende di abusi minorili, si proposero di approfondire la vicenda e si trovarono però di fronte al muro di omertà eretto dalla ragazzina. Negò che la gravidanza fosse frutto di una violenza e anche di fronte alle rassicurazioni degli agenti si rifiutò di fare il nome del “responsabile”. «Posso solo dire che è un mio amico, un compagno di scuola». Indagando con discrezione, anche con la collaborazione degli insegnanti, gli agenti arrivarono a escludere l’ipotesi del coetaneo e, temendo l’abuso familiare, si concentrarono sui parenti. I consulenti medici del pm, dall’analisi genetica della minore e del feto, accertarono che la paternità era da ricercarsi negli stretti congiunti. I soli consanguinei in Italia erano il padre e il fratello. Una volta escluso quest’ultimo, all’esito del test del Dna, non rimase che il 40enne: nel corredo genetico del feto c’era la sua doppia firma. Il padre della ragazza, con un margine di incertezza pari quasi a zero, era anche il padre del bambino mai nato. A quel punto si trattava solo di rintracciarlo chissà dove per inchiodarlo alle sue responsabilità. Adesso, dopo le dovute conferme di laboratorio, rischia una pesante condanna.

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