Violenta la figlia, smascherato dal Dna

Rimini

RIMINI. Violenta e mette incinta la figlia tredicenne e viene smascherato dalla prova del dna. L’uomo è finito in manette in Scandinavia, dove evidentemente aveva trovato rifugio dopo che la polizia aveva cominciato a sospettare di lui, nonostante la ragazzina abbia tentato in ogni modo di depistare gli agenti senza mai denunciare l’abuso.

E’ incappato in un controllo stradale e il suo nome è apparso nella banca dati scandinava: su di lui un anno fa era stato infatti emesso un mandato di cattura internazionale dal Gip del Tribunale di Rimini, su richiesta del pm Paola Bonetti. La procura ha infatti ben presto condiviso le conclusioni degli investigatori della squadra mobile della questura di Rimini, diretta dal vice questore aggiunto Nicola Vitale.

L’uomo, un quarantenne immigrato extracomunitario residente nel Riminese (ogni ulteriore dettaglio viene omesso per non rendere anche indirettamente riconoscibile la minorenne coinvolta) dovrà rispondere di violenza sessuale aggravata. Nel frattempo sono state avviate le pratiche per l’estradizione in Italia. Dalla Scandinavia avrebbe respinto ogni addebito, ma è certo che dovrà spiegare molte cose per evitare una severa condanna.

E’ sparito dalla località del Riminese dove viveva da tempo con moglie e figli proprio alla vigilia del prelievo di saliva volontario necessario per effettuare il test genetico, al quale aveva accettato di sottoporsi al pari di altri membri della famiglia. Lui, che aveva appena perso il lavoro, non si presentò alla prova del tampone e sparì senza dare troppe spiegazioni, pur mantenendo sporadici contatti telefonici con i propri cari. Il caso, seguito con professionalità e riserbo dai poliziotti riminesi, emerge grazie alla segnalazione dell’ospedale. La ragazzina, che frequentava le medie, era stata accompagnata dai medici in ospedale perché abortisse. Per procedere all’interruzione di gravidanza c’era però bisogno del consenso anche della madre della minore. «Preferirei di no – protestò il padre – perché mia moglie è una donna all’antica e vorrei risparmiarle questo dolore». Una tesi poco convincente, tanto più quando - dagli accertamenti medici - risultò che l’uomo aveva già cercato di ottenere clandestinamente il suo scopo. Gli uomini della Mobile, specializzati nel trattare vicende di abusi minorili, si proposero di approfondire la vicenda e si trovarono però di fronte al muro di omertà eretto dalla ragazzina. Negò che la gravidanza fosse frutto di una violenza e anche di fronte alle rassicurazioni degli agenti si rifiutò di fare il nome del “responsabile”. «Posso solo dire che è un mio amico, un compagno di scuola». Indagando con discrezione, anche con la collaborazione degli insegnanti, gli agenti arrivarono a escludere l’ipotesi del coetaneo e, temendo l’abuso familiare, si concentrarono sui parenti. Tra gli altri, anche il fratello maggiorenne si sottopose al prelievo di saliva per mettere a confronto il proprio Dna con quello ricavato dal feto, una volta abortito. Il padre invece, alla vigilia del controllo, lasciò improvvisamente l’Italia. «Per lavoro», lo giustificò la moglie che, per errore, consegnò il proprio spazzolino agli agenti invece di quello del marito. Il dato che nelle settimane successive emerse dal laboratorio della Scientifica di Bologna non aveva bisogno di raffronti diretti: nel corredo genetico del feto c’era la sua doppia firma. Il padre della ragazza, con un margine di incertezza pari quasi a zero, era anche il padre del bambino mai nato. A quel punto si trattava solo di rintracciarlo chissà dove per inchiodarlo alle sue responsabilità.

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