Tucker? Una truffa provata

Rimini

 

RIMINI. Caso “Tucker”? Una storia italiana. La truffa è certificata ma nessuno dei colpevoli paga grazie alla prescrizione, i cui tempi sono stati ridotti da una legge, successiva all’avvio del procedimento, che nel nostro Paese manda in fumo 400 processi al giorno. Con le vecchie regole il reato più grave si sarebbe estinto nel 2017. La lettura delle motivazioni della sentenza della Corte di Cassazione, depositata nelle scorse settimane, spazza via ambiguità e imprecisioni. Il colpo di spugna arriva perché i ricorsi della difesa vengono considerati sì “ammissibili” in astratto - e quindi consentono di “sforare” il limite temporale - ma “infondati” e da rigettare nel merito da parte dei giudici.

Accanto alla dichiarazione di avvenuta prescrizione del reato di associazione per delinquere, l’unico sopravvissuto alle “cancellazioni” dopo i primi gradi di giudizio, viene infatti ribadito a chiare lettere, a beneficio delle parti civili, quanto risulta provato dalle inchieste: l’inefficienza del dispositivo e la consapevolezza degli imputati, strutturati in sodalizio criminale, di commercializzare un prodotto non corrispondente alle caratteristiche pubblicizzate (risparmio energetico e incremento delle prestazioni). La Corte suprema boccia una a una nel merito le presunte cause di nullità e si sofferma anche sul tubo. «La pressoché assoluta inutilità del dispositivo Tucker – si legge nelle motivazioni della sentenza - deve ritenersi dato ormai pacificamente acquisito nel processo, in conformità alle complete, esaustive e coerenti valutazioni della corte di merito». Soltanto fuorvianti, inoltre, vengono definite le dissertazioni difensive sulla presunta criminalizzazione da parte dell’accusa del sistema di vendita multilevel marketing: la tecnica finisce nel mirino dell’inchiesta solo «in quanto strumentale alla distribuzione di un prodotto fasullo». «Anche il quadro delle singole responsabilità è compiutamente delineato nella sentenza di appello, e dà conto di tutte le questioni sollevate dalle difese di questo o quell’imputato con argomenti esenti da censure logico-giuridiche». Ed è per questo che la Cassazione ribadisce: «Agli effetti civili va riaffermata la virtuale responsabilità di tutti i ricorrenti tanto per il reato associativo che per i reati di truffa». I contenziosi civili restano quindi in piedi e vanno avanti, ma dall’altra parte la fine della vicenda giudiziaria spalanca definitivamente la possibilità per i vertici della Tucker di vedersi “restituire” dal fisco, dopo un lungo contenzioso, più di tre milioni e mezzo di euro. Tutto nasce dal fatto che la società, in anni lontani quando era ancora attiva, aderì al “condono tombale”, cristallizzando la sua posizione, e ora si trova nella condizione di poter monetizzare i crediti Iva realizzati allora attraverso l’utilizzo di fatture per operazioni su cui nessuno a quel punto si prese più la briga di sottilizzare: in ogni caso non esistono contestazioni di carattere penale. Si tratta di soldi destinati a rientrare nelle tasche di chi li realizzò a partire da un prodotto truffaldino, stando quanto certificato dalle inchieste e dalla stessa sentenza definitiva che estingue ogni reato, per effetto dell’eccessivo trascorrere del tempo. Il caso Tucker, del quale all’epoca si occupò anche il tg satirico Striscia la notizia, esplose il 7 ottobre 2002 con l’arresto di Mirko Eusebi e Ivana Ferrara: restarono in carcere per circa tre mesi e mezzo (più altri due mesi e mezzo ai domiciliari). In primo grado vennero condannati rispettivamente a 11 anni e 4 mesi e 10 anni e 10 mesi. In appello (prescritte le truffe) furono loro inflitte pene di sei anni, e di 5 anni e 7 mesi. Infine la Cassazione: “colpevoli”, ma ormai non più punibili perché il reato nel frattempo si è “spento”.

Newsletter

Iscriviti e ricevi le notizie del giorno prima di chiunque altro Clicca qui