Rimini. Aborto, "nostra figlia è viva grazie alla papa Giovanni XXIII"

Rimini

RIMINI. Venti anni fa la preghiera di don Oreste davanti a Villa Assunta. Oggi, dopo aver salvato 364 bimbi dall'aborto, continua la missione e l'impegno quotidiano della Papa Giovanni XXIII. Vedere un "dono di Dio laddove gli altri vedono solo problemi; così 364 vite sono state salvate grazie all'impegno quotidiano e all'esempio di don Oreste che il 26 marzo 1999, proprio venti anni fa, iniziava la sua preghiera davanti a Villa Assunta, nell'ora e nel giorno in cui iniziavano gli interventi per abortire".

Le parole del don

“Non possiamo non essere presenti sul luogo del martirio di tanti innocenti” diceva don Oreste che, come noto, faceva sempre seguire alle parole i fatti, sostengono dalla comunità Papa Giovanni XXIII. Si trattava di un gesto forte nato dal fallimento di una mediazione con l'Usl di allora, alla quale "si chiedeva, invano, uno spazio in cui incontrare le donne che avevano deciso di abortire, per offrire loro l'aiuto di cui avevano bisogno per risolvere i problemi che le inducevano a rinunciare al loro bambino".

Don Oreste capì che il problema era quello di "ridare fiducia ai genitori, di non lasciarli soli, convincerli che dopo le iniziali difficoltà, la gioia della genitorialità avrebbe ripagato di tutti gli sforzi". Così in venti anni i membri della sua Comunità hanno salvato 364 vite, di cui 98 già con un appuntamento con la morte imminente. "Purtroppo però - dichiara don Adamo Affri - negli stessi anni le vite di più di 10.000 bambini sono state spezzate attraverso l’aborto".

Aborti "figli della solitudine e dell’abbandono, di problemi personali o famigliari, precarietà economica, clandestinità", ma il vero problema di fondo è il "non trovare consenso, incoraggiamento e un sostegno concreto per affrontare la realtà". Sempre più numerosi sono le gestanti che "subiscono pressioni psicologiche, che possono arrivare anche a minacce e ricatti, da parte del partner, dei genitori, degli operatori sociali per chi ha situazioni di fragilità, dei medici quando ci sono problemi di salute del nascituro, del datore di lavoro che minaccia di non rinnovare o sciogliere il contratto".

In queste 1.040 settimane la preghiera "ha raccolto numerosi riconoscimenti" (vi ha preso parte una volta anche il sindaco Alberto Ravaioli) ed è stata attaccata anche duramente (per un periodo era anche sorto il comitato ‘Venerdì 17’ che si poneva l’obiettivo di farla terminare). I "frutti più belli" sono stati senz’altro i sorrisi dei bimbi nati dall’incontro con mamme che stavano entrando per abortire. La papa Giovanni ha scelto una delle storie da raccontare. Quella di Carla ed Antonio. Eccola di seguito.

La testimonianza di Carla e Antonio

"Carla ed io siamo insieme da nove anni, abitavamo in provincia di Modena e da sei mesi avevamo aperto una pizzeria, quando ci fu il terremoto che devastò il locale e la nostra abitazione. Sono stati mesi durissimi, in cui abbiamo anche avuto il dolore di perdere il bambino che aspettavamo. Carla infatti era incinta ed eravamo molto felici, quando, probabilmente tutta la paura e lo stress che ha vissuto per le continue scosse hanno causato un aborto spontaneo. Oltre alla distruzione che ci circondava abbiamo fatto anche questa esperienza di morte  dentro Carla che ci ha provato molto. Ho cercato di reagire, soprattutto per dare speranza a Carla che era molto sofferente e abbattuta, ma nonostante tutto il mio impegno, non siamo riusciti a ricostruire la nostra autonomia, anche per mancanza dei risarcimenti che invece sarebbero dovuto arrivare. Pertanto decidemmo di trasferirci a Rimini, dove abbiamo trovato lavori stagionali abitando in diversi residence. Quando Carla è rimasta incinta di nuovo, ci siamo messi subito alla ricerca di un appartamento, ma da subito ci siamo scontrati con delle richieste di garanzia per noi inaccessibili: un anno di fideiussione bancaria, più sei mesi di cauzione, contratto di lavoro a tempo indeterminato per entrambi, oltre ad affitti molto alti.

Un proprietario ci ha persino rifiutato con la motivazione che il lavoro di pizzaiolo non era una garanzia. E che dire del rifiuto perché non volevano bambini? Eravamo disperati, Carla stava perdendo la serenità, il fatto che non avevamo un  tetto da offrire al nostro bambino interpellava la nostra responsabilità di genitori. Come facevamo a farlo nascere in questa precarietà? Per tutto il nostro vissuto era fondamentale avere una casa per poter accogliere un figlio. Con grande dispiacere giungemmo alla  decisione di abortire! Al consultorio abbiamo manifestato la nostra volontà all'ostetrica che,  dopo averci chiesto la motivazione, fissò l'appuntamento per l'aborto e ci consigliò di parlarne con l'assistente sociale. Questa durante il colloquio si rese subito conto della nostra angoscia: noi desideravamo così tanto un figlio, che volevamo  garantirgli  quello che per noi era essenziale: un tetto!

Subito ci propose un contatto con la Comunità Papa Giovanni XXIII, con cui collaborava,  per trovare una soluzione al nostro bisogno. Mancavano  tre giorni all'appuntamento per abortire quando incontrammo la volontaria di questa Comunità che ci assicurò il loro interessamento per trovare una soluzione al problema che stava per togliere la vita al nostro bambino. Eravamo abbastanza scettici, specialmente Carla non aveva fiducia per le tante delusioni di cui aveva fatto esperienza in questi ultimi anni. Il pomeriggio dello stesso giorno in cui ci siamo incontrati successe il miracolo: una giovane famiglia che si era appena trasferita nella  nuova casa, avendo saputo della nostra situazione,  metteva a disposizione  il suo appartamento, completamente arredato! Non ci potevamo credere, siamo andati subito a vederlo e abbiamo incontrato la famiglia che ci ha accolto con tanto calore e con un'inaspettata familiarità. Carla si è sentita rivivere, ha ritrovato la speranza e la fiducia che aveva completamente perso, dopo tante delusioni e ingiustizie subite. Adesso è davvero felice perché la nostra bambina ha una casa dove avere la residenza e  vivere stabilmente, non di sei mesi in sei mesi come è stato per noi. Abbiamo raccontato la nostra storia per dire quanto è importante creare condizioni favorevoli perché la famiglia possa mettere al mondo figli, ma chiediamo di mantenere l'anonimato proprio per timore che, in una società così poco umana,  il dire la verità possa compromettere la possibilità di trovare una nostra stabilità lavorativa che ancora è da costruire".

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