Il padre del ragazzo morto a Riccione: "Vadim merita rispetto: voglio la verità"

«Non mi arrenderò mai, se anche la terza inchiesta della procura dovesse concludersi senza risposte, troverò comunque il modo di andare fino in fondo. Non avrò pace fino a quando non capirò che cosa è successo a mio figlio. Spero che stavolta sia quella buona». Solo la commovente e ostinata battaglia di Giuseppe Piccione, operaio di origine siciliana, ha impedito finora di mettere la parola fine all’inchiesta sulla morte del ventiduenne figlio Vadim, avvenuta in circostanze misteriose durante la Notte Rosa del 2012. Gli amici non si accorsero della sua sparizione e il cadavere, ripescato soltanto dopo molte ore nel canale del Marano, non fu esaminato adeguatamente per un’omissione dell’addetto all’obitorio (poi condannato a sei mesi e licenziato dall’Ausl). I vestiti della vittima andarono persi. Una concatenazione di errori e sottovalutazioni che Giuseppe Piccione, adesso assistito dall’avvocato Sonia Raimondi, non ha mai smesso di sottolineare.

Che cosa la fa più arrabbiare?

«L’aver compreso che Vadim non ha avuto il rispetto che meritava. Era la Notte rosa e nessuno voleva pubblicità negativa, hanno visto la carta di identità che diceva: nato in Bielorussia, io e mia moglie siamo persone semplici, abituati a fidarci delle autorità. Però troppe cose non tornavano: le voci false sul fatto che fosse malato, la conclusione che fosse annegato quando l’autopsia non ha potuto accertarlo e anzi un nostro consulente esclude la presenza di acqua nei polmoni, il livello dell’acqua del Marano che dicevano non potesse essere calcolato e invece non era vero. Meritava un’inchiesta più accurata. Prima o poi l’avrà». Intanto il giudice, riaprendo il caso, ha disposto nuovi accertamenti: individua come ipotesi di reato la “morte come conseguenza di altro reato”, l’“omissione di soccorso” e “l’abbandono di incapace”. In particolare ritiene che «per fare luce sulla triste vicenda» debbano essere interrogate («entro tre mesi») quattro persone già individuate dalle indagini difensive.
Un passo avanti?
«Ritengo di sì. La maggior parte delle contraddizioni sono emerse grazie alle mie indagini, gli accertamenti che dovrebbero essere fatti adesso sono gli stessi che richiedo inutilmente da sette anni. Spero che però si rifacciano le analisi: si è detto che è troppo costoso, ma per Pantani non si è badato a spese, nonostante già la prima volta fosse stato fatto tutto scrupolosamente». Ogni due settimane l’uomo va a Riccione, da Ravenna dove vive in un quartiere popolare, per mettere un fiore accanto alla lapide che ricorda il ragazzo, in passato finita nel mirino dei vandali.

Sua moglie ha sofferto di depressione, nessuno vi restituirà Vadim e obiettivamente non sarà facile arrivare alla verità dopo sette anni. Perché questa battaglia?

«Vadim merita questo e altro: era un ragazzo d’oro, e non gli è stato tributato il rispetto che meritava. Sempre pronto a impegnarsi per gli altri. Lui non avrebbe mai lasciato qualcuno indietro. Meritava di avere un futuro dopo un’infanzia difficile, trascorsa in orfanatrofio».

Quando lo accoglieste con voi?

«Nel duemila, e fu un po’ per caso. Avevamo l’idoneità all’adozione da tanti anni dal Tribunale di Catania, una volta arrivati in Romagna nel 1999 ci siamo iscritti a un’associazione di volontariato per ospitare i bambini bielorussi in estate. Ci dissero subito che non si trattava di adozioni e noi lo avevamo accettato. Un giorno, però, la presidente ci disse: Giuseppe, c’è la possibilità di adottare un bambino, ve la sentite? Sulle prime ero un po’ perplesso, aveva nove anni, era già grandicello, con esperienze non facili alle spalle, ma accettammo di incontrarlo senza impegno. Il padre era morto, alla madre avevano tolto la patria potestà, non so se per problemi di alcol o droga. Lui era un bambino dolce e intelligente. Dopo due fine settimana abbiamo capito che la nostra casa sarebbe stata la sua casa, per sempre. Vadim era nostro figlio».

Aveva ricordi della sua vita da orfano?

«Sì, sognava di tornare in Bielorussia per rintracciare le due sorelle, una delle quali ricordava benissimo. Voleva dire loro che lui stava bene, aveva trovato una bella famiglia e sperava che anche loro fossero state altrettanto fortunate. Gli avevo promesso di accompagnarlo. Mi piacerebbe molto ritrovarle e ho cercato di informarmi, ma non è facile avere informazioni. Le ragazze, cresciute anche loro in istituto, sono finite in due famiglie diverse, nel loro Paese d’origine, ma ci hanno detto che probabilmente hanno cambiato nome e non sono riuscito a fare passi avanti».

Il suo inserimento in Italia?

«Si era inserito bene: in Bielorussia, in attesa di essere adottato gli avevano insegnato l’italiano e in poco tempo era talmente bravo da correggere il mio modo di parlare. A scuola fu inserito subito con i bambini della sua età e alla fine era molto orgoglioso della sua pagella. Era molto intelligente, si faceva apprezzare da tutti. Gli amici si confidavano con lui. Al liceo volle cambiare, perché non si trovava bene, ma poi riprese a studiare, stava per diplomarsi come operatore socio-sanitarie. In casa abbiamo attraversato periodi difficili dal punto di vista economico, mi sono ritrovato per un un po’ senza lavoro, ma lui non me l’ha mai fatto pesare. A volte diceva di non aver voglia di uscire, ma io sapevo che lo faceva per non chiedere i soldi. Di notte spesso aveva notti agitate, ma era un ragazzo solare, di ampie vedute, voleva fare del bene. Quando pensava al futuro, diceva di volere lavorare nel campo dell’assistenza, con i bambini o con gli anziani. La sua vocazione era aiutare gli altri».

E quella sera?

«Quella sera doveva rimanere a Ravenna con un’amica, ma lei non aveva voglia di uscire e così si aggregò al gruppo che andava a Riccione per la Notte Rosa. Loro, a un certo punto, dicono di averlo perso di vista e sono tornati senza di lui in treno. Nessuno mi ha avvertito della sua assenza. Di sicuro ha bevuto, non era neppure abituato. Si sarà agitato. Può essersi sentito male? È stato abbandonato? Spinto? Ma non è annegato, e allora come è morto?».

Lasciamo agli investigatori i dettagli, i riscontri, le contraddizioni. Avremo tempo per tornarci sopra. Le chiedo solo una cosa: perché tornare anno dopo anno alla Notte rosa tra Riccione e Rimini?

«Torno ogni anno. Cerco di immaginare Vadim, e lo rivedo in ogni giovane in difficoltà. Tanti ragazzi e tante ragazze si sentono male. Faccio la sentinella: tante volte sono intervenuto in loro aiuto, chiamando personalmente il 118, nonostante gli amici mi chiedessero di non farlo. E invece, dopo i primi soccorsi, le ambulanze ripartivano a sirene spiegate verso l’ospedale... Una volta hanno ripreso una ragazza per i capelli, non so quello che aveva assunto. Mi hanno detto: l’hai salvata». Vadim andrebbe orgoglioso del suo papà.

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