«Il commendatore Pietro e Marco erano unici meritano un monumento»

Rimini

Lo dica subito: Arpesella è stato dimenticato?

«Mi meraviglio che nessuno abbia ancora pensato a intestare una via o una piazza alla famiglia».

Racconti il suo incontro con Pietro Arpesella.

«Era il 1968 e lavoravo all’hotel Savoia di Sanremo, dove è morto Luigi Tenco. Il commendatore era un cliente abituale, veniva spesso in Liguria e decise di cambiare la brigata del Grand Hotel: sala, cucina e direttore. Portò tutti a Rimini. Avevo 18 anni, l’albergo era gestito da Marco, il figlio, in seguito ci pensò direttamente il commendatore».

Quali sono i suoi ricordi?

«Pietro Arpesella era un padre. Ero l’unico del personale ad avere una camera al Grand Hotel, la 414. Se arrivava qualcuno di importante, ci dovevo essere. “Preferisco tu sia sempre presente” mi diceva. Era bellissimo lavorare per lui e con lui, lo facevamo con amore. I clienti per noi erano tutti “numeri uno”. Certe sere a mezzanotte ero ancora in servizio e alla mattina alle sette quando mi vedeva chiedeva: “Cosa fai già qui?”. In quel periodo facevamo 100mila coperti all’anno, non so se mi spiego. Le famiglie più importanti venivano al Grand Hotel, era una tappa obbligata».

Com’era il turismo prima e dopo Arpesella?

«Grazie a lui è nato il sistema Rimini. Magari avevamo dieci clienti, ma le luci del Grand Hotel dovevano essere accese. Ha fatto accendere i lampioni del lungomare, quando gli alberghi aprivano a maggio e chiudevano a settembre e fuori rimaneva il deserto. Una dopo l’altra, visto che noi lavoravamo anche in inverno, hanno cominciato a restare aperte anche le altre strutture».

Cosa le ha insegnato?

«In albergo voleva solo professionisti e li trattava come persone di famiglia. Non gli ho mai chiesto soldi e aumenti, ci pensava da solo. Adesso all’albergatore interessa solo che il personale costi poco e che lavori molto. Il commendatore era un signore, sempre elegantissimo. Una volta mi ha regalato un papillon, lo conservo come un cimelio».

Umanamente quale insegnamento custodisce?

«L’umiltà. Oggi sono tutti sapientoni e non sanno nulla».

Più di trent’anni sempre fedele al Grand Hotel. Come è stato possibile?

«Mi sono innamorato, il suo fascino è unico, Ancora oggi che sono in pensione, ogni tanto sento il desiderio di andare a vedere, là dentro c’è ancora qualcuno che ho creato io. Adesso i “cinque stelle” sono tutti uguali, magari offrono più servizi, ma da noi c’era amore e la gente era contenta, i clienti venivano dieci, quindici volte, c’era amore e partiva tutto dalla famiglia Arpesella. Rimini e la Romagna dovrebbero al più presto farle un monumento».

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