"Lupara bianca", la svolta dopo 31 anni

Rimini

RIMINI. A partire da una lettera anonima indirizzata in questura e dalle notizie rilanciate dal Corriere si è arrivati, a più di trenta anni dai fatti, a una svolta sul caso di “lupara bianca” avvenuto a Rimini il 29 luglio 1983, nell’ambito di una guerra tra clan.

Una nuova pista percorsa dai carabinieri del Ros di Bologna ha portato all’individuazione di due persone, mai sfiorate finora dall’inchiesta sull’omicidio di Arcangelo Romano, che portò in passato all’incriminazione di altri soggetti e alla condanna definitiva a 24 anni di reclusione di Domenico Saccà, morto suicida in casa dopo aver ottenuto i domiciliari per motivi di salute. Il mandante, nella nuova ricostruzione del delitto, resta lo stesso: il boss Angelo Epaminonda.

I nuovi indagati per omicidio in concorso (aggravato dal contesto mafioso) e occultamento di cadavere (il corpo non è mai stato trovato) risultano essere un 67enne napoletano, per lungo tempo residente a Riccione e già coinvolto in inchieste giudiziarie sebbene mai per fatti di sangue, e un 54enne originario di San Mauro Pascoli e residente a Gambettola. I militari, che hanno perquisito le loro abitazioni, hanno notificato ai sospettati l’avviso di conclusione dell’indagine. Se non sono scattate le manette evidentemente il quadro indiziario non è “blindato”. Secondo quanto raccolto dal pm Stefano Orsi, sarebbe stato proprio il napoletano, difeso dall’avvocato Fiorenzo Alessi, a esplodere i due colpi di arma all’indirizzo della vittima, per agevolare le attività criminali del clan Epaminonda. La possibilità che non tutto fosse chiarito sul caso emerse nel dicembre 2011 quando un anonimo scrisse all’allora questore di Rimini, Oreste Capocasa, una lettera anonima “spacciandosi” per l’assassino. «Non sono un millantatore: sono io quello che ha ucciso Arcangelo Romano, nel 1983. Gli ho sparato due colpi di pistola calibro 7.65 sul lato destro della testa. L’uomo condannato per l’omicidio non c’entra, è innocente». A riprova della sua credibilità, il misterioso anonimo allegò una mappa della zona attorno al ponte di Faetano per consentire di ritrovare i resti del cadavere. I sopralluoghi non dettero esito, ma i possibili testimoni indicati della lettera devono aver raccontato qualciosa di interessante.

A denunciare la scomparsa di Romano, 36 anni, fu la sua compagna. Era l’1 agosto ’83: «Non lo vedo da tre giorni, credo gli sia successo qualcosa di brutto». Non si seppe più niente per diversi anni fino alla cattura e al pentimento di Angelo Epaminonda, detto il “Tebano”. Lui confessò e fece i nomi dei presunti sicari. Del corpo, nessuna traccia. Fonti confidenziali indicarono un possibile luogo del seppellimento nell’’86, mentre nel ’92, si scavò nel parcheggio di un ristorante lungo la strada per San Marino.

L’eliminazione di Arcangelo Romano, gestore di una bisca, era il segnale che il boss faceva sul serio per ottenere il suo scopo: il monopolio del gioco d’azzardo in Romagna. Invece di rivolgersi al proprio abituale gruppo di fuoco («gli indiani») Epaminonda accettò che a sbarazzarsi della vittima fosse gente del posto. «Ci tenevano a instaurare un rapporto con me - si legge nei verbali del mafioso pentito - e comunque era interessante avere a Rimini qualcuno a disposizione (Epaminonda ordinò nell’84 anche l’uccisione di un altro uomo, Calogero Lombardo, all’uscita di un bar cittadino ndr). «Procurai io la pistola con il silenziatore. La vittima fu attirata in un tranello. Gli esecutori si incontrarono con Romano in un bar di Igea Marina. Non so con quale scusa poi si allontanarono con lui: venne assassinato e sotterrato. L’unico particolare che rammento essermi stato riferito dagli assassini in ordine ai luoghi è la presenza di un fiume. L’occultamento fu deciso perché l’episodio non avesse risalto: mi bastava che la voce circolasse nei nostri ambienti».

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