Rimini, da migrante a clandestino col decreto sicurezza: "Stavo per morire in mare ora voglio essere felice"

Rimini

RIMINI. «Io voglio restare in Italia, diventare un cuoco e continuare a correre nelle gare di atletica». Quello che ha espresso Mamadou Diouf non è un semplice desiderio, uno di quelli che i ragazzi poco più che ventenni formulano prefigurandosi il proprio futuro. Il sogno di Mamadou è carico di paura e angoscia, perché da propositi concreti e realizzabili, i suoi sogni rischiano di divenire miraggi irraggiungibili. Tra la sua determinazione e il successo, infatti, si è frapposto il Decreto sicurezza che abolisce il permesso per motivi umanitari. Senza quel pezzo di carta, Mamadou rischia di dover porre un freno ai desideri e riavvicinarsi all’incubo da cui è fuggito. Quello della miseria in Senegal, del viaggio estenuante attraverso Burkina Faso, Niger e Mali, la prigionia in Libia e il viaggio verso l’Italia quattro anni fa a bordo di un gommone che per un soffio non è affondato trascinando negli abissi del Mediterraneo la vita di Mamadou e quella di altre 107 persone. Ora Mamadou sta per compiere 23 anni (il 10 dicembre è il suo compleanno) ed è entrato a far parte della famiglia di Mario Galasso, il direttore della Caritas, divenendo di fatto il suo terzo figlio.

Mamadou, come vede il suo presente e il suo futuro, “alla luce” dell’approvazione del decreto sicurezza?

«Sono molto preoccupato. Non riesco a pensare ad altro che a come risolvere questa situazione. A giugno devo anche sostenere l’esame di maturità al Malatesta dove studio per diventare cuoco, ma non riesco a concentrarmi, da quanto sono angosciato. Anche gli allenamenti per le gare di atletica ne stanno risentendo, perché non posso fare a meno di pensare a come procurarmi i documenti che mi permetteranno di restare qui legalmente, di sostenere l’esame e di cercarmi un lavoro. Il mio permesso di soggiorno umanitario è scaduto in agosto, e non lo riotterrò perché ora non esiste più. In realtà, dato che ho lavorato spesso per lunghi periodi, potrei avere il permesso per motivi di lavoro, ma mi serve il passaporto, e per ottenerlo dovrei tornare al mio villaggio in Senegal. Peccato però che se uscissi dall’Italia non potrei più farvi ritorno».

Proprio il Decreto sicurezza, quindi, i cui intenti sarebbero quelli di accrescere la sicurezza e combattere la clandestinità, rischia di portarla sulla strada dell’illegalità e frenare il suo percorso di integrazione?

«Esattamente. So bene che la mia famiglia non mi abbandonerà, che non mi butteranno fuori di casa, ma non posso contare solo su questo. Mio padre, mia madre e i miei fratelli acquisiti sono fantastici, ma devo poter trovare la mia strada. In primis quindi, diplomarmi e trovare un lavoro stabile».

Ha già lavorato qui in Italia?

«Sì, ho fatto la stagione anche quest’estate. Inoltre, visto che parlo italiano, francese e due dialetti senegalesi, il Wolof e il Mandega, frequentemente lavoro come mediatore linguistico durante le udienze in tribunale o i colloqui tra avvocato e cliente. Nel frattempo, studio all’Alberghiero e il mio desiderio è quello di diventare un cuoco. Pensare che fino a due anni fa non sapevo nemmeno cuocere la pasta».

In Italia ha così scoperto anche questa passione. Quella per l’atletica, invece, la coltivava anche prima?

«No, anche la passione per la corsa è nata qui in Italia. Mi impegno davvero tanto e mi dà tantissima soddisfazione. Corro con l’associazione Miramare Runner e partecipo spessissimo alle gare regionali. Ormai nell’ambiente sono diventato un volto noto. Due anni fa sono arrivato secondo alla Strarimini e ho vinto una gara a Calcinelli (Pesaro), mentre all’ultima corsa in cui ho gareggiato, quella “dei becchi” a Santarcangelo, mi sono qualificato quinto assoluto».

In quattro anni ha imparato l’italiano, ha sostenuto l’esame di certificazione linguistica prendendo il B1, ha conseguito il diploma di terza media e ora si appresta a prendere quello alberghiero. Qual è la forza che l’ha spinta in questo percorso di integrazione e autonomia?

«La voglia di riscattarmi, soprattutto pensando a quello che ho passato per arrivare qui. Il viaggio dal mio villaggio in Senegal fino all’Italia è stato interminabile e terribile. Abbiamo attraversato il Niger, il Mali e il Burkina Faso, sono stato fatto prigioniero nelle carceri in Libia, dove mi trattavano come un animale. I trafficanti ci consentivano di bere un bicchiere d’acqua al giorno, e ci davano da mangiare un piatto in cinque, facendoci patire ogni genere di angheria. Per più di un mese non ho nemmeno potuto lavarmi. Ci tenevano prigionieri finché la famiglia non ci inviava i soldi del “riscatto” che loro chiedevano per farci partire alla volta dell’Italia. Poi, finalmente, un mattina alle 6 siamo saliti sul gommone che ha portato me e altre 107 persone nel mar Mediterraneo. Solo che verso le 13 ha iniziato a sgonfiarsi e a imbarcare acqua. Così ci siamo tolti i vestiti, abbiamo buttato in mare il cibo e tutti gli oggetti che avevamo con noi. Ma l’acqua continuava a entrare e vedevamo la morte incombere sopra di noi. Poi, quando ormai ero convinto che quella sarebbe stata la fine della mia vita, è arrivata una nave italiana a salvarci. Ho visto la morte in faccia e la mia vita la voglio vivere appieno».

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