Lo chef di Rimini che conquista la Spagna. "La stella Michelin rappresenta la mia terra"

Rimini

RIMINI. E’ una stella Michelin a cinque punte quella della cucina riminese 2018. Ai confermatissimi Guido di Miramare, Piastrino di Pennabilli e Taverna Righi di San Marino, non si aggiunge infatti la solo bella novità Mariano Guardianelli per l’Abocar Due Cucine nel cuore della città. C’è una quinta assegnazione – primato assoluto per la nostra provincia – quella a Enrico Croatti, che torna a fregiarsi del prestigioso riconoscimento mettendo a segno un record assoluto: il 36enne riminese è infatti il primo chef italiano a ottenerla con un ristorante spagnolo. L’Orobianco di Calpe (Alicante) in Costa Blanca per la precisione, insignito dall’edizione Spagna-Portogallo della bibbia della cucina internazionale. E’ lì, sospeso fra il mare e la roccia iconica di Ifach che da tre anni crea i suoi piatti, in un giro del mondo che lo ha già visto protagonista fra la penisola iberica, la Francia e gli Stati Uniti.

Croatti, non si tratta di una prima volta sulla “Rossa” ma questa ha probabilmente un valore ancor più speciale.

«L’avevo già ottenuta al Dolomieu, Ristorante di Madonna di Campiglio, dove sono entrato nel 2008 che era poco più di un garage e abbiamo creato qualcosa di magico che nel 2013 ci è valso appunto la prima stella, poi riconfermata anche per il 2019. Un’esperienza fantastica che ho deciso di interrompere per concentrarmi sull’Orobianco e su un nuovo progetto che nascerà il prossimo anno a Milano, anche se la proprietà mi chiede di proseguire la collaborazione e ci sto riflettendo».

Torniamo in Spagna

«E’ nato tutto nel 2014, in un luogo fantastico, su una collina vista mare. Il proprietario si era innamorato della mia cucina in Trentino, quando ho visto la location ho subito immaginato cosa potesse diventare e il 5 giugno 2015 abbiamo inaugurato Orobianco, che per un insieme di fattori ha subito fatto breccia. Ho avuto la grande fortuna di avere collaboratori validissimi, che hanno sposato il progetto ed è anche grazie ai miei sous chef Ferdinando Bernardi e Francesco Montemurro, al maitre sommelier Paride Mencarani e al sommelier Eguer Castellanos che è decollata la missione di rappresentare in primis la mia Romagna e la mia Italia, ma soprattutto la mia Rimini. Al di fuori del nostro Paese si pensa che siamo solo a pasta e pizza, la scommessa vinta era proporre la nostra identità regionale e la grande cultura gastronomica che abbiamo. L’Italia e la Romagna sono punti di partenza, che fondo quotidianamente con la ricerca che effettuiamo in un vero e proprio laboratorio in cui testiamo idee e prodotti fino a quando raggiungono l’equilibrio ottimale per entrare in carta. Salire sul palco Michelin dopo soli tre anni insieme a tanti tristellati iberici mi ha emozionato tantissimo come già nel 2013, ma è stato ancor più un onore per la bandiera che rappresento oltralpe. Per tutti noi è però un punto di partenza e non di arrivo, ci dà lo sprint a puntare ancora più in alto».

Cosa porta della Romagna e di Rimini nel piatto?

«Tutto quello che mi e ci rappresenta: il profumo del brodo, la lasagna della domenica, il cappelletto, ma soprattutto il grandissimo rispetto per l’ospite, la verità e la concretezza della nostra terra. Quello è il dna su cui costruisco il mio concetto, la nonna e la mamma sono state le basi di un mestiere che vivo non come un lavoro ma come una vocazione e la mia degustazione che si chiama “Globale” raccoglie il passato, il presente e il futuro. Quel cappelletto che scorre nel mio sangue non lo vivo con nostalgia, bensì come punto di partenza».

La Spagna è l’ultima tappa di un lungo percorso all’estero: a chi deve tutto?

«Se devo indicare una persona, dico mia mamma che a 12 anni mi ha trasmesso il rispetto del cibo, ma dopo avermi fatto toccare per la prima volta una pasta fresca mi sconsigliava di intraprendere questa strada: proprio questo mi ha fatto invece mettere una crocetta sull’Alberghiero. Fondamentale è stato poi Gino Angelini: era il 2005 quando mi sono messo in contatto con lui inviandogli una mail di presentazione a mezzanotte: mi sono risvegliato con la risposta “sono interessato, chiamami” e il 23 novembre (lo stesso giorno in cui lui era arrivato lui 15 anni prima) ero a Los Angeles. Da quella prima stretta di mano è nato qualcosa di magico: il giorno dopo ero già in cucina a passare le pene dell’inferno, ma ho stretto i denti e dopo venti giorni un sabato mattina mi ha invitato a prendere un caffè e mi ha proposto di andare a fare lo chef nel suo secondo ristorante, La Terza Restaurant. Quell’esperienza è stato un pilastro importante della mia vita e della mia formazione: vederlo toccare a mani nudo e massaggiare gli ingredienti mi ha fatto capire qualcosa che va oltre l’essere cuoco e ancora oggi ci sentiamo tutti i giorni. La Francia e il maestro Paul Bocuse a l’Auberge du Pont de Collonges mi hanno invece dato rigore, disciplina e ricerca della perfezione e in Spagna come allievo di Pedro Subiana al tre stelle Akelare di San Sebastian ho avuto la possibilità di conoscere tutti i prodotti della cucina moderna e creativa, di una spinta creativa quasi folle. E non mi sono negato neanche uno stage in Giappone e vi ho aggiunto l’Abc della cucina orientale. Tutte queste esperienze le ho fatte non per copiare, ma per rafforzare la mia testa e la mia identità, l’obiettivo che mi ero posto era quello e oggi sono quello che sono grazie a questo percorso e sono pronto a rientrare in Italia a Milano con un progetto molto bello».

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