Caso Shalabayeva, sette a giudizio: c’è anche il questore di Rimini

Rimini

RIMINI. L’allora responsabile dell’Ufficio immigrazione di Roma, Maurizio Improta, attuale questore di Rimini, è stato rinviato a giudizio assieme ad altre sei persone dal Gip del Tribunale di Perugia per la vicenda di Alma Shalabayeva, moglie del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov, prelevata assieme alla figlia con un blitz delle forze dell’ordine da un’abitazione romana il 29 maggio del 2013 ed espulsa dal territorio italiano.

Accusati a vario titolo di sequestro di persona, abuso d’ufficio, falso in atto pubblico, affronteranno il processo nel capoluogo umbro, a partire dal 29 settembre 2019, anche Renato Cortese, attuale questore di Palermo e all’epoca dei fatti capo della Squadra mobile di Roma, quattro funzionari di polizia coinvolti nell’espulsione (tutti tranne Laura Scipioni, prosciolta perché il fatto non costituisce reato) e il giudice di pace Stefania Lavore che di fatto consegnò madre e figlia al Kazakhistan. Grazie al riconoscimento dell’immunità diplomatica sono stati prosciolti anche tre esponenti della diplomazia kazaka: l’allora ambasciatore Andrian Yelemessov, il primo segretario Nurlan Khassen e l’addetto agli affari consolari Yerzhan Yessirkepov.

La vicenda è complessa e, per il giudice, merita l’approfondimento dell’aula.

Il questore Improta, amareggiato per l’esito dell’udienza preliminare (riteneva di avere chiarito la sua posizione), non rilascia commenti. Ha sempre respinto gli addebiti e sostenuto di aver agito correttamente per quelle che erano le informazioni in suo possesso, a partire da quelle, incomplete ed errate, avute dalla Squadra mobile.

L’avvocato difensore Alì Abukar Hayo, nella scorsa udienza, aveva chiesto il proscioglimento tornando a ribadire, tra l’altro, come Improta «non abbia mai firmato atti» che potessero indurre chicchessia «in errore». Interrogato più volte sugli stessi fatti (in un primo tempo era la procura di Roma a indagare per omissione d’atti d’ufficio, ma poi Perugia, competente sui magistrati della capitale, ipotizzando un reato più grave, ha avocato a sé l’inchiesta) il questore è rimasto fermo sulla propria versione, già all’epoca messa nero su bianco una prima volta al capo della polizia dell’epoca.

Shalabayeva arrivò in Italia con la figlioletta nel maggio 2013; aveva con sé un passaporto falso della Repubblica Centrafricana e per questo gli inquirenti chiesero il processo nei suoi confronti. I pm romani (che dettero il nulla osta al rimpatrio per poi annullare il decreto) accusarono poi i funzionari di averli indotti in errore riguardo al suo status, alla sua nazionalità e alle sue richieste per accelerare le pratiche di espulsione.

Nel maggio scorso Shalabayeva è venuta in Italia a testimoniare e ha ribadito la sua versione dei fatti. «Quello mio e di mia figlia fu un rapimento».

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