Don Fausto: «Cercato dai tedeschi sono vivo grazie a Marvelli»

Rimini

RIMINI. Aprile 1944. L’Italia è occupata militarmente dalle truppe tedesche. Mussolini ha ripreso il potere fondando la Repubblica di Salò. Le truppe alleate, sbarcate in Italia nel settembre del 1943, sono già attestate sul fiume Foglia, a Pesaro. A soli trenta chilometri da Rimini e avanzano verso nord.

In quei giorni esce il bando che chiama alle armi i nati del primo semestre del 1926. La classe di Fausto Lanfranchi. Rispondere e partire significherebbe mettere un grande punto interrogativo sulla propria vita.

Fu allora che Alberto Marvelli decise di aiutare l’amico nascondendolo in casa propria e rischiando la fucilazione per lui e per la sua famiglia. Un gesto che ha segnato la vita di don Fausto che dopo la morte del giovane ingegnere si è speso per farne riconoscere le virtù eroiche tanto da essere il Vice postulatore della sua causa di canonizzazione.

Don Fausto, cosa ricorda di quei giorni?

«Ricordo perfettamente tutto. La paura, l’angoscia, il decidere cosa fare. I tedeschi stavano facendo massicci rastrellamenti costringendo giovani uomini a lavorare per la famosa linea gotica: una serie di fortificazioni, che attraversava l’Italia da Siena a Rimini, nel tentativo di fermare l’avanzata delle truppe alleate verso la Pianura Padana. Fu allora che, con alcuni amici della mia età, decidemmo di darci alla macchia e non rispondere alla chiamata alle armi. Ricordo che ci nascondevamo nei campi di granoturco che in quel periodo era altissimo e quindi ci si poteva muovere senza farsi notare. Ricordo anche le mitragliate dei tedeschi verso i campi, proprio per farci paura e farci venire allo scoperto. La mia clandestinità, fra casa e campi, durò pochi giorni. Alberto venne a sapere della mia situazione perché non mi vide più in chiesa, a Vergiano, dove ci ritrovavamo spesso a pregare l’uno accanto all’altro e a ricevere l’Eucaristia».

E cosa fece?

«Propose ai miei genitori di accogliermi in casa sua, dove era più facile nascondersi, per sottrarmi a un’eventuale cattura dei fascisti o dei tedeschi. A fine luglio o ai primi di agosto, non ricordo bene il giorno, entrai a far parte della famiglia Marvelli. Nel piccolo appartamento vivevano la signora Maria, mamma di Alberto, i due figli più piccoli Giorgio di 16 anni, Gede di 12 e Alberto. Gli altri fratelli: Adolfo, Carlo e Lello erano rispettivamente partigiano al nord, prigioniero in Egitto e purtroppo caduto sul fronte russo nel gennaio del 1943. Nonostante il clima arroventato di quei giorni, fra allarmi, scoppi di granate, mitragliamenti, in casa Marvelli si viveva abbastanza tranquilli e sereni. La mamma di Alberto era molto premurosa nei miei riguardi, mi considerava come un figlio, capiva la mia sofferenza, lontano dalla famiglia e in costante pericolo, e con dolcezza cercava di consolarmi facendomi coraggio. Durante la mia permanenza in casa, almeno due volte, vennero i tedeschi per vedere se c’erano dei giovani nascosti. Quando bussavano al portone, con mitra e cani, la domestica apriva e, fingendo di chiamare una persona dava un segnale. Nella camera da letto della signora Maria c’era una porticina, che introduceva nell’intercapedine fra due muri, che fungeva da ripostiglio. Era il mio nascondiglio. La mamma spostava il letto in modo da occultare la porticina con la spalliera, poi vi stendeva sopra fingendosi malata, finché i tedeschi non se ne fossero andati. Tutta la famiglia correva un grave rischio per me. Un proclama del generale Kesserling, comandante in capo delle truppe tedesche in Italia, comminava la morte per fucilazione, senza processo, a tutti quelli che nascondevano i giovani renitenti alla leva. Rimasi in casa di Alberto per una ventina di giorni. Verso la fine di agosto le truppe alleate erano a pochi chilometri da Rimini, i tedeschi si ritiravano verso nord, pur ponendo una discreta resistenza».

Poi cosa è accaduto?

«Passato il pericolo dei rastrellamenti, potei tornare dalla mia famiglia, che nel frattempo si era trasferita in una casa colonica, sulla collina, vicino alla chiesa, a pochi passi dalla Villa Ugolini, dove risiedevano i Marvelli. La mia famiglia e quella di Alberto, data la vicinanza, si conobbero e fecero amicizia. Ricordo che la signora Maria diede a mia mamma un pezzo di stoffa, di colore azzurro, perché confezionasse un vestito per Gede e anche per mia sorella più piccola. Ricordo anche il momento dello sfollamento verso San Marino. Il 3 settembre le truppe alleate entrarono a Riccione. Ormai la permanenza a Vergiano non era più sicura, le bombe cadevano sempre più vicino. Ricordo che Alberto il 4 settembre, prese la famiglia e la sistemò in un camerone del collegio Belluzzi, a San Marino, e poi tornò a Vergiano per condurre al sicuro anche la mia famiglia. La mattina del 6 settembre partimmo presto, con solo mezzo di trasporto la bicicletta di Alberto, sulla quale caricammo una valigia con le poche cose che riuscimmo a portare con noi. Eravamo in sei: mio padre, mia madre, io e le mie tre sorelle. Alberto guidava il piccolo gruppo, camminavamo lentamente per piccoli sentieri o attraverso i campi, per la paura di incontrare tedeschi o repubblichini. Arrivammo a Borgo Maggiore nel primo pomeriggio, stanchi e affamati. Alberto ci portò alla casa dei Salesiani che ci ospitarono fino al giorno seguente. Alberto tornò a prenderci, sempre con la sua bici, e ci condusse nelle gallerie del trenino Azzurro che collegava Rimini e San Marino. Ci donò una pentola e alcuni cucchiai, l’unico mezzo di sopravvivenza. All’imbocco della galleria Alberto distribuiva il pane e, qualche rara volta, un piatto di minestra caldo, aiutato da alcuni giovani di Azione Cattolica, anch’essi sfollati. La sera, poi, passava lungo la galleria e iniziava a recitare il Rosario e tutti lo seguivano. Poi chiedeva a tutti di che cosa avessero bisogno e il giorno dopo cercava di provvedere».

Intanto gli alleati erano arrivati mettendo in fuga i tedeschi.

«Era il 20 settembre. Tutti ci precipitammo fuori dalla galleria. Alberto ancora una volta si occupò della mia famiglia, ci trovò un alloggio presso l’Ufficio tecnico, dove anche altre famiglie attendevano di poter tornare a casa. La mia amicizia con Alberto diventò in quel periodo una splendida amicizia».

Che, però, la sera del 5 ottobre cessò.

«Ricordo che ero al Centro Diocesano, in via Bonsi, con altri dirigenti della mia parrocchia, per gli ultimi preparativi per il Convegno regionale dei giovani di Azione Cattolica. Circa alle 10 giunse la notizia che Alberto era morto poche ore prima, investito da un camion. La notizia riempì il mio cuore di tristezza. Furono giorni difficilissimi, il dolore era tanto. Avevo perso un amico, un compagno, un esempio, una luce. Mi ricordo che il giorno dei funerali si formò un corteo enorme, di quasi tre chilometri. Alberto ancora oggi è vivo nel mio cuore. A dieci anni dalla sua morte, nel 1956, all’età di 30 anni, presi la decisione di diventare sacerdote. Il suo esempio, le sue virtù, la sua donazione totale a Dio e al prossimo mi hanno aiutato durante la mia vita. Ancora oggi la mia amicizia con Alberto è viva e si esprime con la mia visita quotidiana alla sua tomba nella chiesa di Sant’Agostino. Mi fermo in silenzio accanto a lui, per pregare con lui come facevamo tanti anni fa nella chiesetta di Vergiano. Alberto nella gloria del Cielo, io pellegrino sulla terra, ma uniti nell’amicizia e nella comunione dei santi».

Newsletter

Iscriviti e ricevi le notizie del giorno prima di chiunque altro Clicca qui