«Butungu brutale e ossessionato dal sesso, nessuna attenuante culturale»

Rimini

RIMINI. Una giovane turista milanese, in vacanza con la sorella e un’amica, rischiò di finire tra grinfie di Guerlin Butungu la notte del 16 agosto, dieci giorni prima che il capobranco scatenasse la sua violenza brutale. Seguita, braccata in spiaggia trovò rifugio in un bar del lungomare: ha riconosciuto l’aggressore in televisione dopo il suo arresto. L’inedita testimonianza della ragazza, agli atti del processo, emerge tra le righe della sentenza di condanna a sedici anni di reclusione nei confronti dell’imputato, depositata nei giorni scorsi dal presidente Silvia Corinaldesi (il collegio era completato dai giudici Benedetta Vitolo e Manuel Bianchi).

Le motivazioni

Ottantanove pagine per motivare un verdetto di colpevolezza tutt’altro che “buonista” e tracciare il ritratto di un imputato ossessionato dal sesso che non ha mai dato segni di sincero pentimento: la pena, a sottolineare l’inaudita brutalità dei misfatti, si è spinta oltre le richieste della pubblica accusa. E senza lo sconto di un terzo previsto dal rito abbreviato sarebbe stata pari a 24 anni di reclusione, nonostante l’effetto solitamente “mitigante” del riconoscimento della “continuazione”.

Per i giudici il comune denominatore delle azioni di Butungu (difeso dall’avvocato Mario Scarpa) e dei complici minorenni (di recente condannati a Bologna a 9 anni e 8 mesi ciascuno) è «l’espressione di un istinto sessuale, finalizzato inequivocamente al soddisfacimento di un desiderio di natura sessuale».

Si tratta di «condotte poste in essere con violenza e minaccia e con un’aggressività particolarmente brutale: percosse, strattonamenti, costringimento fisico a terra, soffocamento, trascinamento, minacce di morte anche con l’utilizzo di bottiglie e cocci rotti». Il «fare serata», anche quando l’aggressione non va in porto come nel caso della turista milanese, rappresenta il disegno criminoso stesso. Un «programma» che prevede l’assunzione di alcol, droga, rapporti sessuali non necessariamente consenzienti e l’impossessamento di smartphone, orologi e soldi. Di fronte «a vittime innocenti e inconsapevoli» i giudici non se la sentono di fare calcoli al ribasso.

“Continuazione”: aumenti veri

È la ragione per la quale gli aumenti per la “continuazione” non sono «meramente simbolici o comunque irrisori». E una volta individuata la pena base (otto anni) ci si è fermati “solo” al triplo, cioè il massimo consentito dalla legge.

Butungu, per il Tribunale di Rimini, non merita attenuanti. La confessione non è stata piena nonostante l’evidenza delle prove raccolte. Le scuse? Di circostanza. Non solo ha scelto di non ripeterle in aula, dove è rimasto in silenzio, ma anche nel corso degli interrogatori non ha mostrato pentimento, né una «elaborazione critica» capace di «contestualizzare le condotte, spiegare le dinamiche e le intenzioni del gruppo, far comprendere il perché di tanta inaudita ferocia».

No a giustificazioni culturali

«Nessuna tradizione culturale» poi «potrà mai giustificare» la «propensione alla violenza» manifestata da Butungu.

«D’altra parte, il disagio sociale, da qualunque ragione determinato, non può bastare, da solo, a costituire circostanza attenuante, a meno che non si traduca in una condizione di per sé idonea a determinare il reato (come, ad esempio, in certe ipotesi di reati contro il patrimonio)... anche tenuto conto della rete di assistenza e protezione garantita dal welfare italiano, e in particolare delle misure a garanzia degli immigrati extracomunitari, soprattutto se minori non accompagnati, richiedenti asilo o protezione». Niente giustifica, insomma, Butungu: né l’improbabile e indimostrato passato di soldato-bambino in Congo, vagamente «evocato» dai suoi difensori, né altre vicende traumatiche nell’infanzia o nell’adolescenza.

Ossessionato dal sesso

Dell’imputato è chiaro invece «solo un forte interesse alla dimensione sessuale (si veda l’infiammazione del pene da eccessiva manipolazione riportata nel suo libretto sanitario, ma anche l’affermazione - confidata all’amico - di poter “prendere” qualsiasi donna nel proprio Paese, senza essere in presenza di vere e proprio patologie)». Di certo «non è riuscito ad integrarsi se non negli aspetti che attengono allo ‘sballo’ giovanile; si è procurato in qualche modo (probabilmente non del tutto lecito, vista la disponibilità di stupefacenti e la presenza in casa di beni di dubbia provenienza) le risorse economiche per condurre una vita analoga a quella di molti suoi coetanei, soprattutto extracomunitari, fatta di molto tempo libero, di svago e di frequenti escursioni notturne nel ’divertimentificio’ riminese».

Capitolo vittime

L’ultimo capitolo della sentenza si sofferma sulle vittime. «Dei danni sofferti» - scrivono i giudici - «si è avuta traccia nel silenzio composto e dignitoso» con cui la cittadina peruviana (assistita dall’avvocato Enrico Graziosi) ha seguito tutte le udienze del processo e nelle parole accorate scritte dalla coppia polacca e lette in aula dall’avvocato Maurizio Ghinelli. «Due giovani spensierati in vacanza in una località italiana famosa per il mare, la spiaggia e le occasioni estive di divertimento, appartati per godere insieme del contesto e della loro affettuosa amicizia» e una «donna» peruviana («è la sua identità femminile che è stata violata») «trascinati in un’esperienza che non è retorico definire ‘da incubo’, perché aggrediti con una violenza straordinaria e del tutto superflua rispetto al fine perseguito, oltremodo sproporzionata, se si guarda al vantaggio patrimoniale ottenuto: due telefonini, un orologio di modesto valore, una piccola macchina fotografica, ma superiore anche alla violenza necessaria (si passi il termine) ad assicurarsi un rapporto sessuale, perché reiterata, in maniera del tutto gratuita, per consentire a tutti gli aggressori di avere ciascuno più di un rapporto con la stessa persona, e più di un orgasmo, superando anche la momentanea impotenza, o gli ostacoli occasionali, come la sabbia nelle parti intime».

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