Omicidio di Rivabella, condannati in tre

Rimini

RIMINI. Morì per una “colpa” da lavare nel sangue secondo l’ottica distorta di un clan familiare legato a un antico codice d’onore che non apparteneva alla vittima, né al Paese, l’Italia, che li ospita. I tre imputati sono stati riconosciuti responsabili dell’omicidio di Petrit Nikolli, 42enne idraulico di cittadinanza italiana e origine albanese ucciso in strada a Rivabella il 25 maggio 2016. I giudici della Corte d’assise di Rimini (presidente Silvia Corinaldesi, giudice a latere Benedetta Vitolo, più i “popolari”) hanno condannato a 25 anni di reclusione sia Lek Preci sia il figlio Edmond Preci; l’altro figlio, Altin Preci, è stato condannato a 23 anni di reclusione. È caduta l’aggravante della premeditazione, ma non sono state concesse le attenuanti. Il pm Paola Bonetti aveva chiesto per tutti l’ergastolo. «Giustizia è fatta: da stasera Petrit potrà riposare un pochino più in pace», ha commentato Linda, la vedova, madre di quattro figli, assistita dall’avvocato Mattia Lancini (le è stata riconosciuta una provvisionale di 300mila euro). La donna, che ha assistito a tutte le udienze, si era presentata in aula con una maglietta con il volto del marito (“Sei il nostro supereroe”). Col pennarello aveva poi aggiunto sul retro: “Giustizia per Pietro”. Il verdetto, che comunque apre uno spiraglio per la difesa in vista dell’appello, è arrivato verso le 19,45 dopo sei ore di camera di consiglio. Due degli imputati l’hanno accolto abbassando lo sguardo, Altin, colto da un mancamento, si è accasciato sul banco. Da ieri sera sono stati sistemati nella stessa cella. Tra i parenti delle due famiglie coinvolte nella vicenda, assiepati in aula, è calato il gelo. La sentenza ha riconosciuto la validità del quadro accusatorio (l’inchiesta era stata fatta dalla Squadra mobile di Rimini), ma siamo ancora al primo grado di giudizio.

In apertura di udienza il pm Bonetti aveva ribadito la richiesta dell’ergastolo per tutti e tre gli imputati a suo dire responsabili di avere pianificato e compiuto tutti assieme una spedizione punitiva. Sulla stessa linea anche l’avvocato di parte civile Mattia Lancini: «Chi dice la verità non cambia versione». L’avvocato difensore Tiziana Casali aveva invece puntato a sminuire il movente dell’accusa individuato nell’adesione al codice d’onore Kanun. «Quelle regole non appartengono a Lek, e tanto meno ai suoi figli che addirittura nemmeno le conoscono: Altin è addirittura cresciuto nel nostro Paese, ha una fidanzata e amici italiani». Dovevano essere semplici repliche, ma è stata quasi una discussione bis. L’avvocato Casali aveva sollevato dubbi sulla tesi della premeditazione: perché farsi annunciare da una serie di telefonate? Perché non aspettare Petrit sotto casa sua? «Lek è da condannare, i figli sono da assolvere: non sapevano neppure che fosse armato».

La sera prima di essere ucciso Petrit aveva raccolto al telefono lo sfogo di sua nipote, ragazza ventenne sposata con Edmond. «Mio marito mi maltratta». Era davvero così? La giovane non è venuta a dirlo al processo: è scappata negli Stati Uniti, attirando anche lo sdegno della vedova di Petrit. Di certo lo zio le credette tanto che il giorno dopo, l’ultimo della sua esistenza, partì da Rimini e andò a prenderla, innescando la reazione incontrollata della famiglia Preci. L’epilogo è noto. Ma Lek, uscendo dall’aula, continua a scuotere il capo e ripetere quello che dice dal giorno dell’arresto: «I miei figli non c’entrano».

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