L'ombra di Totò Riina sulla Riviera: sangue, siringhe infette e infiltrazioni

Rimini

RIMINI. Fino al ritrovamento di due corpi senza vita, con i volti incappucciati dai sacchi della spazzatura, nel bagagliaio di una Opel Omega parcheggiata nell’area di servizio autostradale a ridosso di Rimini, il 25 ottobre 1991, se qualcuno parlava di mafia in Romagna veniva preso per matto. In realtà, anche se molti preferivano non vedere, il tentativo di “colonizzazione” era in atto da tempo per una serie di fattori che vedono in primo piano i soggiorni obbligati introdotti dalla legge 575/1965, l’alta concentrazione di attività turistiche e la domanda di droga nella zona, tra le più elevate nel Paese. Totò Riina, l’ultimo capo dei capi riconosciuto, morto nei giorni scorsi a 87 anni nel reparto detenuti dell’ospedale di Parma, ne sapeva qualcosa visto che nel tempo alcuni suoi emissari hanno gestito per lui in Romagna più di un affare. Perfino quel duplice omicidio di ventisei anni fa, lo si è scoperto solo a distanza di tempo grazie ad alcuni pentiti, può essere considerato come un favore a “U Curtu”, sebbene come mandante sia stato condannato in via definitiva il cognato di Riina, Leoluca Bagarella. Una delle vittime, Agostino D’Agati, a sua volta sorvegliato speciale dirottato in Romagna, era il vero bersaglio del regolamento di conti, mentre l’altro uomo – Ernesto Buffa, rappresentante di cosmetici – pagò solo il fatto di avere accompagnato il vicino di casa all’appuntamento con la morte. Un magazzino riminese dove andava a comprare un piumone: ad attenderlo c’erano i killer. Tra gli artefici dell’operazione, condannato in concorso, c’era anche un altro “riminese”, Santo Mazzei (in zona viveva anche il fratello Matteo, considerato il basista dell’agguato), che per quel favore venne affiliato a Cosa nostra e più tardi incaricato da Riina in persona di altre azioni dimostrative. Attorno a quell’ambiente si appuntarono anche i sospetti per il delitto di Maurizio Belloni, un bolognese punito per uno sgarro. L’uomo fu ritrovato in mare annegato e incaprettato al largo di Rimini: un delitto a oggi insoluto. Furono, agli inizi degli anni Novanta, i segnali più evidenti dell’infiltrazione mafiosa subita dalla Riviera romagnola a partire dagli anni Ottanta quando Giacomo Riina, zio paterno di Totò e imparentato con Luciano Liggio, domiciliato tra Budrio e Rimini, subentrò ad Angelo Epaminonda nel controllo delle bische in Romagna. Perfino all’indomani dell’arresto di Riina, che risale al gennaio 1993, Rimini continuò ad accendere le peggiori fantasie dei suoi affiliati. «Volevamo piazzare brioscine avvelenate nei supermercati, e spargere siringhe con il sangue infetto dall’Aids sulla spiaggia di Rimini – rivelò infatti Giovanni Brusca, l’uomo che premette il telecomando dell’attentato di Capaci (il 23 maggio del 1992) in cui morirono il giudice Giovanni Falcone e la sua scorta, per poi divenire collaboratore di giustizia – Ci furono riunioni e il progetto delle siringhe era a buon punto, tanto che stavamo già cercando di procurarci il sangue. L’idea era di nascondere le siringhe sotto la sabbia...».

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