Il mandante va in galera: ha minacciato il carabiniere che lo ha incastrato

Rimini

RIMINI. «Il 12 ottobre sarò in tribunale a Rimini per Augusto per il quale ho i domiciliari. Sai cosa devi fare con mia moglie; dalle 500 euro e smetti di andare al (... ) e paga i debiti. Io non dimentico, sarò fuori a breve, poi rideremo anche con M. ». Sono le frasi contenute nella cartolina che Attilio Da Corte Zandatina, indicato come il mandante del ferimento di Augusto Mulargia avvenuto nell’aprile del 2016, ha scritto a un conoscente. Scritto intercettato dai carabinieri e che nel volgere di una manciata di giorni dagli arresti domiciliari ottenuti lo scorso agosto per via dell’età (74 anni), lo ha riportato ai Casetti. Destinatario inequivocabile della minaccia, perché Zandatina (noto nell’ambiente della mala romagnola come “Nonno carabina”) lo cita senza giri di parole, è il maresciallo dei carabinieri che fin dall’inizio ha seguito l’indagine per l’agguato di via Zavagli, ordinato per punire un debito di droga di diverse migliaia di euro non onorato dalla vittima. Per la verità Attilio Da Corte Zandatina, che è difeso di fiducia dagli avvocati Cesare Brancaleoni e Giuliano Renzi, gli arresti domiciliari li ha ottenuti in relazione all’arresto per la detenzione di mezzo chilo di droga, cattura avvenuta diverse settimane prima l’emissione dell’ordinanza per il ferimento di Augusto Mulargia.

Ma poco importa. Non appena il sostituto procuratore Luca Bertuzzi, titolare dell’inchiesta fin dalle prime battute, è stato messo a conoscenza del sequestro della cartolina, ha immediatamente chiesto al tribunale di sorveglianza di ripristinare la misura detentiva più dura.

La storia

Sono tre le persone in galera per l’agguato. Oltre a Zandatina, il mandante, le manette dei carabinieri sono scattate ai polsi del suo figliastro, il 33enne riminese Cesare Giuffreda, e di colui che ha tirato materialmente il grilletto: il 29enne Emanuel Karim Camaldo che ha già chiuso la sua partita patteggiando una condanna a 5 anni e 8 mesi. Giuffreda, che era al volante della Smart nera da cui Camaldo fece fuoco per tre volte, agli investigatori dell’Arma ha confessato d’aver partecipato all’agguato. Anzi, aveva detto che era stata «una mia iniziativa: volevo fare qualcosa per il mio patrigno che era stato danneggiato da quell’uomo. Un vecchio debito di 60mila euro».

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