In missione tra i "maledetti da Dio": bimbi disabili rifiutati dai genitori

Rimini

RIMINI. Quello in Bangladesh è sempre un viaggio particolare. Per il clima, che in alcuni periodi dell’anno risulta insopportabile a chi come me non è abituato a tassi di umidità così elevati. Per gli odori forti che ti accompagnano in ogni spostamento fino a sentirli sulla pelle.

E soprattutto perché ti proietta in un mondo completamente diverso, fatto di tradizioni e credenze lontane anni luce dalla nostra cultura che ti scorrono davanti lungo tutto il tragitto dalla capitale Dhaka al piccolo e sperduto villaggio di Chalna.

I “maledetti da Dio”

Ed è proprio a Chalna, nella parte sud occidentale del paese, che la Comunità Papa Giovanni XXIII opera dal 1999, chiamata principalmente per prendersi cura delle persone affette da disabilità che in questo paese rappresentano tra il 10% ed il 15% della popolazione (dati Oms).

Persone disabili che per la cultura locale sono “Maledetti da Dio”. La disabilità è qualcosa di cui temere, vergognarsi o ridere. E’ credenza comune che sia causata da forze soprannaturali o da spiriti maligni e che la maggior parte di coloro che ne sono affetti non sia curabile. Ed è spesso a guaritori religiosi e tradizionali come fachiri, kabiraj (stregoni) e maghi che le famiglie si rivolgono in cerca di aiuto.

Disabili emarginati

Le persone disabili finiscono quindi con l’essere relegate ai margini della società. Nascoste agli occhi del mondo, punizione divina per qualche peccato commesso, trascorrono così le loro giornate sul pavimento di povere baracche di fango, spesso legate ed in condizioni igienico-sanitarie molto precarie. Non mancano le madri che vorrebbero prendersi cura con amore e forza dei propri figli affetti da disabilità, ma spesso sono costrette all’abbandono da mariti, da familiari o semplicemente da vicini di casa.

L’azione dei missionari

Sin dall’inizio i missionari si sono quindi impegnati nell’accoglienza di bambini e ragazzi con gravi handicap, focalizzandosi anche sulla sensibilizzazione della popolazione locale con l’obiettivo di far capire che queste creature non sono una maledizione ma un dono di Dio.

Shock all’arrivo

E quando arrivo sono proprio loro ad accogliermi, consegnandomi un fiore di benvenuto. Anche per me, abituato ormai da 30 anni a vivere a stretto contatto con la disabilità, vederne così tanti e così gravi è stato quasi scioccante. E pensare che i missionari non ci fanno quasi più caso, abituati come sono a condividere la vita con loro.

Vivono infatti tutti insieme in un villaggio al cui interno ci sono quattro case famiglia per minori e disabili e quattro case di accoglienza per adulti, spesso madri sole.

La storia di Gabriel

Uno dei bambini che mi ha colpito di più è stato Gabriel. Nato senza gambe e con un solo braccio, è stato abbandonato dalla famiglia appena nato trascorrendo i primi anni di vita in istituto dove è rimasto fino a quattro anni fa quando è arrivato in missione. Me lo ha presentato Antonio Urbinati, riminese classe ’76, il papà della casa famiglia che l’ha accolto.

Antonio mi ha raccontato che quando “Gabi” è arrivato ha capito subito che aveva un carattere forte: determinato ed orgoglioso, si muoveva facendosi forza con l’unico braccio. A lui dispiaceva vederlo così, sempre per terra. Voleva che si integrasse con gli altri bambini e che giocasse con loro in sicurezza.

Perché per Antonio i bambini disabili sono persone normali e come tali devono essere trattate. Cosa fare allora per Gabriel? Siccome è sempre stato bravo nei lavori manuali gli è venuto in mente di costruire un mezzo che gli permettesse di muoversi in modo autonomo.

La carrozzina a manovella

Ha così assemblato una carrozzina adatta a lui, dotata di una manovella per “pedalare” e di un cerchio in cui incastrare il braccio mutilato per guidare. Gabriel la adora e ne è così orgoglioso che se ne prende cura come meglio può: la pulisce e cerca di ripararla quando per esempio esce la catena.

All’occorrenza la carrozzina diventa anche una scrivania. Antonio gli ha creato un apposito tavolino di legno che si inserisce nel volante. Quando c’è, pedalare diventa impossibile, così Gabriel è costretto a studiare. Ha 7 anni e lo studio non gli piace. Deve però capire che è importante, soprattutto per le persone disabili, in quanto è una delle poche possibilità che hanno di costruirsi un futuro.

Ritorno dal mio viaggio stanco ma felice e con nuove consapevolezze. Ho infatti capito che solo il lavoro costante, quotidiano, silenzioso di persone come Antonio, Franca, Fiorenzo, Uggiol e Minoti può garantire un futuro positivo ai bambini come Gabriel e creare una cultura di integrazione che riduca lo stigma nei confronti delle persone affette da disabilità. Il lavoro è duro, molto spesso portato avanti con grande difficoltà, sacrifici e frustrazioni, ma il sorriso di tanti piccoli rigenerati nell’amore è la più grande ricompensa.

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