«La terribile notte in cui i fascisti trucidarono la mia famiglia»

Rimini

RIMINI

Bruna, a 13 anni, è una ragazzina dalla pelle scura, i capelli neri neri. Vive a Torino, nelle case operaie del quartiere Regio Parco. Arriverà a Rimini, sua seconda città, solo nel 1963, e qui vivrà per 52 anni, prima a San Giuliano Mare, poi a Viserba. Ma in quel marzo del 1945 la riviera era ancora lontanissima, solo un sogno.

La vita di Bruna a 13 anni è speciale: il suo papà, Gaspare Arduino, è un operaio alle acciaierie Fiat, antifascista molto noto; entra ed esce di prigione, una, due, diciotto volte, anche per lunghi periodi; nel marzo del ’43 era stato tra gli organizzatori dello sciopero alle Officine Grandi Motori. È un gappista, membro dei Gruppi di azione patriottica che operano in città. A differenza dei partigiani di montagna, molti gappisti vivono alla luce del sole. Gaspare guida un piccolo gruppo, e anche le sue figlie più grandi si impegnano come staffette. Vera, 19 anni, e Libera, 21, lavorano come operaie e danno una mano alle famiglie dei partigiani, portano cibo, lettere, messaggi. Salgono in bicicletta e via per chilometri. In quegli anni partecipano alla nascita dei “Gruppi di difesa della donna e di assistenza ai combattenti per la libertà”. Ma sono ragazze semplici, leggono romanzi rosa, si innamorano, trascrivono in bella calligrafia su un quadernino i testi delle canzoni di quel tempo.

La notte tra il 12 e il 13 marzo 1945 la vita di Bruna cambia per sempre. La Liberazione si avvicina, i repubblichini sono nervosi. Un commando, guidato dal tenente Aldo De Chiffre, entra con uno stratagemma a casa Arduino.

La testimonianza diretta

Bruna ha conservato per tutta la vita un ricordo vivissimo di quella notte: «Dopo cena bussano alla nostra porta – è il suo racconto –, al quarto piano di via Moncrivello. È Rosa Ghizzone, con lei ci sono il marito Pierino Montarlo, che aspetta in strada, e altri due uomini sconosciuti. Anche Rosa è una staffetta, dice a mio padre che quegli uomini vogliono andare in montagna con i partigiani, che hanno bisogno del suo aiuto. Pochi attimi, poi i due, appena vedono chi c’è in casa, si rivelano per quello che sono: tirano fuori le armi e ci mettono tutti al muro. Mia mamma Teresa era fuori, sul balcone, e rientrando ci vede tutti con le mani alzate; io, che avevo solo 13 anni, tremavo come una foglia. Allora mi viene vicina, mi prende per i polsi e mi dice: “Stai calma Bruna, non è niente”. A questo punto i due uomini con il mitra fanno uscire tutti lasciando in casa solo me, mia madre e mio fratello Antonio, di 6 anni, che era stato messo a dormire nell’altra camera. Portano via mio padre, le mie sorelle, il partigiano Aldo De Carli, che si trovava a casa nostra quella sera, Rosa con suo marito, e l’amico Alberto Ellena, che era venuto a prendere mio padre per portalo a dormire a casa sua, perché in quei giorni il clima a Torino era pesante, e c’era paura che qualcosa accadesse… Ricordo che uno dei fascisti prima uscire di casa si rivolse alla mia mamma dicendole: “Signora non urli, stia calma che noi non facciamo del male”… Non li ho mai più visti. Mia madre li ha cercati per tutta la notte nelle caserme di Torino pensando fossero stati arrestati, invece quella stessa notte vennero uccisi per strada e scaricati in diversi punti della città. Una cugina ci avvisò che i loro corpi erano all’Istituto di medicina legale».

I funerali

A tre giorni dall’eccidio, il 16 marzo, si celebrano i funerali. L’uccisione di Vera e Libera non lascia indifferente la città, e sono proprio le donne di Torino a dare un segnale. I Gruppi di difesa della donna organizzano una manifestazione, in alcune fabbriche ci sono degli scioperi, una coraggiosa issa una bandiera rossa sul tetto.

«Questa manifestazione – scrive Bianca Guidetti Serra nel suo libro “Compagne” (Einaudi, 1977) – per la data in cui avvenne, per l’adesione che ottenne, per le conseguenze che ne seguirono (un centinaio di arresti), per le finalità cui era destinata, ha assunto, nel ricordo di molte, particolare rilievo. Rappresentava infatti il risultato di un lungo e tenace lavoro condotto per tanti mesi, tendente a unificare la partecipazione delle donne. E le donne vennero e con degli evidenti simboli comuni: mazzi di fiori, corone con scritte, tutte con qualcosa di rosso».

Le bare vengono accolte in ginocchio ma le porte del cimitero restano chiuse, i fascisti arrivano con i camion sparando per aria, gli uomini presenti vengono arrestati (tra loro c’è anche Lorenzo, il futuro marito di Bruna, anche se ancora non si conoscono), solo ai familiari viene permesso di entrare. Sulle tombe qualcuno riesce comunque a deporre un mazzetto di fiori e un nastro tricolore con la scritta “I Gruppi di difesa della donna”.

Dopo la Liberazione, Aldo De Chiffre, membro dei Reparti antipartigiani, viene processato e condannato alla pena di morte, poi commutata in ergastolo, ma la pena è in seguito ridotta. Diventerà medico all’Ospedale Mauriziano. Alla famiglia Arduino la città di Torino ha dedicato una strada e una scuola, l’Istituto tecnico commerciale “Vera e Libera Arduino”. Una piazza Arduino c’è anche a Vittoria, in provincia di Ragusa.

Bruna Arduino, mia madre, ultima sopravvissuta all’eccidio della sua famiglia, è morta a Rimini il 26 novembre 2015 senza mai smettere di raccontarlo.

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