Ribaltato verdetto in appello: ergastolo allo zio pescatore
A Rimini l’uomo era stato assolto da tutte le accuse in base all’articolo 530, secondo comma (assimilabile alla vecchia insufficienza di prove), ad eccezione dell’occultamento di cadavere, reato per il quale gli era stata inflitta la pena di cinque anni (il pm in quel caso aveva chiesto l’ergastolo). I giudici bolognesi lo hanno riconosciuto colpevole di ogni addebito (compresa la rapina del telefonino a Mannina), con le aggravanti della premeditazione e della crudeltà. Sadik Dine, che è difeso dall’avvocato Massimiliano Orrù e si è sempre professato innocente, avrebbe partecipato, stando alla sentenza di appello, alle varie fasi della doppia esecuzione pianificata e realizzata dalla coppia formata da suo nipote Dritan Demiraj e da Monica Sanchi, grazie alla sua collaborazione e a quella di un quarto complice, all’epoca dei fatti 17enne (già condannato a 28 anni dalla giustizia minorile). Questi, tra l’altro, chiamato a testimoniare nel processo d’appello, è stato reticente e la Corte ha rinviato gli atti al pm di Bologna: rischia l’incriminazione per falsa testimonianza. La sentenza di ieri, arrivata alle 13.30 dopo tre ore di camera di consiglio, conferma inoltre la pena di trenta anni di reclusione per Monica Sanchi: la condanna diventa definitiva.
Il processo di secondo grado nei confronti del principale imputato, Dritan Demiraj, il pasticciere albanese condannato in primo grado all’ergastolo per l’omicidio della sua ex compagna e dell’ultimo amante di lei è invece slittato a ottobre. Le sue condizioni non gli permettono di stare in giudizio dopo che un altro detenuto gli ha procurato gravissime lesioni nel corso di un pestaggio avvenuto nel penitenziario di Parma. Difficilmente riacquisterà tutte le sue facoltà.
Il verdetto di ieri è una specie di rivincita per la procura di Rimini e per le parti civili (l’avvocato Alessandro Buzzoni assiste i familiari di Mannina)che avevano presentato ricorso contro l’assoluzione dello “zio” Sadik, tornato libero, alla sua attività di pescatore, all’indomani dell’assoluzione in primo grado. Secondo il pm riminese che dapprima condusse l’inchiesta e poi sostenne l’accusa in aula, Monica Sanchi, principale accusatrice del pescatore, era da ritenersi credibile visto che non avrebbe avuto delle particolari ragioni di astio per la chiamata in correità. Né avrebbe tratto benefici o vantaggi dalla eventuale condanna dello zio del suo ex compagno. La falsità dell’alibi fornito inizialmente, il tenore di alcune conversazioni intercettate (versioni di comodo concertate con il nipote) e la consapevolezza dei propositi criminali dei coimputati facevano ritenere necessario, agli occhi del pm, una rilettura della posizione dell’imputato. I fatti, in attesa dell’ultima parola in Cassazione, gli danno ragione.