Mamma e figlia uccise da una stufa che non c'è

Rimini

RIMINI. Madre e figlia morte per una tragica fatalità a causa del monossido di carbonio e il compagno della donna, alla vista di una scena così dolorosa, suicida per troppo amore.

Ma la stufa killer non c’è. Alle conclusioni dell’inchiesta sul giallo della famiglia sterminata nella villetta di Misano Adriatico manca però un tassello fondamentale: la stufa killer non c’è.

Non è stata mai trovata e quindi non solo non è stato possibile verificarne l’eventuale cattivo funzionamento, ma non risulta provata neppure la sua esistenza. Si deduce che sia quella la fonte dell’intossicazione fatale, secondo una «ricostruzione operata con metodo scientifico logico e deduttivo» e s’ipotizza che a sbarazzarsi della stufa fantasma (posta sull’uscio o accanto al bidone dei rifiuti) sia stato l’uomo in preda alla disperazione, poco prima di tagliarsi le vene. Perché allora non è stata mai ritrovata? L’avrà portata via un ladruncolo di passaggio o oppure qualcuno del «servizio di raccolta rifiuti», spiega il pm Luca Bertuzzi nelle righe finali della richiesta di archiviazione rivolta al Gip.

Verso l’opposizione. Una tesi che non convince i familiari delle vittime che, attraverso i loro legali (avvocati Stefano Caroli e Luca Greco) preannunciano l’intenzione di impugnarla. Di certo i carabinieri di Riccione non hanno lasciato niente al caso, la loro indagine è stata minuziosa e particolareggiata, ma per la natura stessa della tragedia, le conclusioni non possono essere che probabilistiche e non spacciate per certe.

Il ritrovamento. I corpi senza vita di Adriana Stadie, di sua figlia Sophie, non ancora 15enne, e di Alvaro Cerda Cedeno (compagno della prima, padre adottivo della seconda) furono trovati, grazie all’iniziativa di un carabiniere amico delle vittime, il 13 gennaio 2015. La tragedia risaliva presumibilmente, però, al 21 novembre 2014, data della loro effettiva “scomparsa” nell’indifferenza generale. Le due donne sono risultate vittime (assieme al cagnolino) di una fatale intossicazione da monossido di carbonio, per l’uomo, invece, che aveva le vene del polso sinistro tagliate con il rasoio, si è concluso per il suicidio.

La prima falsa pista. La pista perseguita in partenza era stata quella dell’omicidio-suicidio: l’uomo, prima di farla finita, avrebbe ucciso madre e figlia. Una tesi illogica e impraticabile smontata facilmente, ma grazie anche all’ostinazione e alle insistenze della sorella di Alvaro, dalle successive analisi scientifiche. I Ris di Parma hanno infatti escluso la manomissione della caldaia. Non c’erano le impronte di Alvaro neppure sulla stufetta numero due trovata in un garage esterno, al centro di un altro mistero. E’ saltata fuori solo in un secondo sopralluogo, prima non l’aveva notata nessuno. L’unico a toccarla però era stato il figlio dei padroni di casa, un’anziana coppia che ha sempre sostenuto di non aver dato peso all’assenza degli inquilini (avevano pagato un paio di mensilità in anticipo e parlavano di volersi trasferire a Ibiza).

Caldaia difettosa? No, perfetta. La successiva convinzione degli investigatori è stata allora che si fosse trattato di un incidente domestico di fronte al quale l’uomo aveva reagito con disperazione: suicidio d’impeto di fronte al al dolore della perdita della sua famiglia. Una seconda perizia conferma però che l’impianto di riscaldamento funzionava benissimo: ecco la “necessità” della presenza di una stufa (giustificata anche dall’analisi dei consumi). A quel punto però “serve” che l’uomo (che non chiede aiuto, né apre le finestre) si preoccupi di buttarla via un attimo prima di morire. Solo così, anche se la fonte dell’intossicazione non viene trovata, il tassello mancante torna a posto.

I dubbi restano. Si può ammettere che in letteratura non esiste l’omicidio per inalazione da monossido di carbonio: immaginare dei killer esperti di chimica appare irrealistico. Neppure l’ipotetico passaggio del camion dei rifiuti davanti alla casa, spazza via però altri dubbi irrisolti. La macchina parcheggiata vicino alla chiesa nascosta alla vista, il nome mancante sulla cassetta della posta, una finestra semi-aperta notata da un testimone, la luce accesa ignorata per due mesi dai vicini, l’assenza di una seconda chiave, la possibilità che il semi-scatto della serratura (che rende impossibile l’intervento di terzi provenienti da fuori) sia il frutto dell’apertura forzata dei vigili del fuoco. Qualcuno può aver intenzionalmente fatto sparire la stufetta, magari solo per paura di un coinvolgimento indiretto? E quanto si è approfondito riguardo a certe circostanze? Il padre naturale di Sophie, gravemente ammalato è, ad esempio, un facoltoso imprenditore della zona che frequentava e manteneva la ragazzina con generoso assegno mensile, sufficiente anche per i bisogni della madre e del compagno. Non l’aveva mai riconosciuta, ma con una causa di paternità sarebbe potuta divenire la sua ricca erede. Adriana, inoltre, appassionata di pasticceria artistica, lavorava anche come traduttrice dallo spagnolo per i carabinieri e spesso era impegnata nella saletta delle intercettazioni per spiare pericolosi narcotrafficanti. La doppia morte accidentale e il suicidio per troppo amore resta forse l’ipotesi più plausibile come sostiene l’informativa dei carabinieri firmata dal tenente Marco Di Donna e dal maresciallo Roberto Santone, ma – specie in assenza della stufa killer - non è l’unica possibile.

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