Il caso è chiuso, anzi no: i retroscena dell'inchiesta

Rimini

RIMINI. C’è davvero la mano della camorra dietro al controllo di Madonna di Campiglio da cui cominciò la tragica discesa che portò alla morte di Marco Pantani? Secondo la procura di Forlì, che ha chiesto l’archiviazione si tratta di un’ipotesi investigativa che non ha trovato confortanti riscontri fattuali.

Eppure nel chiudere di fatto il caso da un punto di vista giudiziario spunta nella richiesta dei pm forlivesi al giudice una formulazione finale ambigua che spalanca la porta aperta all’inquietante interrogativo. Una soluzione che “accontenta” tutti: famiglia, tifosi, carabinieri che hanno lavorato alacremente al caso a partire dagli spunti forniti dall’avvocato Antonio De Rensis. Un unico rischio in questi casi, dove manca la spiegazione dei fatti: la possibilità che una leggenda metropolitana si tramuti in verità.

L’indagine partiva dalle presunte minacce e intimidazioni negli anni denunciate dall’entourage del campione: gli inquirenti ritengono credibile la possibilità che ci siano state, anche se mancano gli elementi per individuare l’autore (o gli autori) - la prescrizione non c’entra - e il movente resta avvolto nel mistero. Gli squarci sarebbero rappresentati dalle dichiarazioni rese da persone informate sui fatti e da conversazioni captate casualmente tra gli stessi soggetti. Si badi bene: nessun legame è emerso tra questi e i medici del controllo, gli unici che avrebbero potuto taroccare i dati.

Tutto ruota attorno alle vecchie dichiarazioni di Renato Vallanzasca. La dritta che gli avrebbe fornito un detenuto dall’accento napoletano sul fatto che Pantani non sarebbe arrivato al traguardo finale del giro del 1999. Per verificare la sua dichiarazione i carabinieri raccolgono le foto di tutti gli ex detenuti di origine campana, cinque in tutto, che erano con lui nella stessa sezione del carcere di Novara. Vallanzasca, non ricorda e non ha mai ricordato il nome del detenuto, non riconosce neppure il volto dell’informatore. “Non sono in grado di dire se tra questi vi è la persona di cui ho parlato”. I carabinieri allora vanno a parlare con quei cinque. Uno di loro, in particolare (che chiameremo convenzionalmente “Pasquale”), sentito al mattino, si limita a confermare di aver conosciuto Vallanzasca in carcere. Nel pomeriggio, invece, lo stesso richiama in caserma, e ricorda di aver parlato delle imprese di Pantani in cella con Vallanzasca. Pasquale dice che c’era un altro campano, affiliato a un clan camorristico, che in carcere sosteneva che Pantani sarebbe stato fatto fuori (ipotesi che negli ultimi diciassette anni è stata ripercorsa in libri, interviste e trasmissioni televisive). “Non ho mai saputo in che modo e con chi si erano rivolti per metterlo fuorigioco”. Non fu Pasquale, però a parlare con Vallanzasca. E allora chi? L’uomo fa il nome dell’affiliato al clan e ricorda che questi e Vallanzasca avevano un amico comune. Pasquale, nel frattempo, viene intercettato nell’ambito di un’altra inchiesta e al telefono spiega alla figlia la ragione per la quale ha parlato con i carabinieri. Lui spiega il motivo e di fronte alla perplessità della figlia ribadisce più volte che è tutto vero: “...sì, sì, sì, sì”. I carabinieri forlivesi allora vanno dal camorrista indicato da Pasquale. Si trova in carcere in Abruzzo, era detenuto nel carcere di Novara, ma solo fino a marzo 1999 (il controllo risale al 5 giugno). Che cosa dice della vicenda? “Non escludo che qualcuno possa aver fatto questa confidenza a Vallanzasca, ma io non saprei dire chi fu”.

Ecco che gli investigatori allora bussano alle porte del capoclan. Questi racconta di aver parlato con altri capoclan della camorra del caso Pantani e aver convenuto con loro che un quarto clan avrebbe potuto organizzare il tutto alle spalle del campione. I tre colleghi, a suo avviso, “sapevano” che se Pantani vinceva il banco saltava. Ma come hanno fatto a taroccare il controllo? “Non sono a conoscenza di come hanno fatto”. Ipotizza che qualcuno abbia avvicinato gli addetti ai controlli. “escludo nella maniera più assoluta che i medici siano stati minacciati: si tratta unicamente di corruzione”. Ma chi parlò con Vallanzasca? Il capoclan ha un’idea anche su questo: una volta conosciuta la rosa dei “papabili” suggerisce uno dei vecchi detenuti campani a Novara: “Potrebbe essere lui, perché parente di una famiglia legata a un gruppo alleato con il clan che storicamente si occupa di scommesse clandestine”. Il capoclan si riferisce, però, a uno di quelli che si è chiamato fuori. Siamo ancora al punto di partenza. Vallanzasca. Ma per qualcuno, evidentemente, il cerchio è chiuso, sebbene i medici non siano stati sfiorati da alcun sospetto (chi altri avrebbe potuto alterare i dati?). Potrebbe bastare così, ma invece - con l’inchiesta riminese sulla morte del Pirata alle battute finali (il Gip sta esaminando la richiesta di archiviazione) – ecco l’interesse conoscitivo della Dda di Bologna, già anticipato dal pm Enrico Cieri (si parla di camorra) e quello delle istituzioni. A chiedere che il caso Pantani sia esaminato dalla Commissione antimafia, dopo aver ascoltato l’intercettazione tra il padre campano e la figlia, è il deputato riminese Pd Tiziano Arlotti. Ieri ha rivolto un appello in tal senso a Rosy Bindi, presidente della Commissione parlamentare di inchiesta sulle mafie e al sottosegretario con delega allo Sport Luca Lotti. Passione sportiva, romanzo criminale, magistratura, informazione e politica: una storia italiana.

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