Ergastolo a Dritan, 30 anni a Monica

Rimini

RIMINI. Per il duplice omicidio di Silvio Mannina e Lidia Nusdorfi la Corte d’assise di Rimini ha condannato Dritan Demiraj, difeso dall’avvocato Massimiliano Orrù, all’ergastolo (con isolamento diurno di 18 mesi) e Monica Sanchi, difesa dall’avvocato Nicola De Curtis, a 30 anni. Lo zio dell’uomo, Sadik Dine (difeso dall’avvocato Orrù) è stato assolto dall’accusa di complicità con gli assassini (il pm aveva chiesto l’ergastolo) in base all’articolo 530, secondo comma (assimilabile alla vecchia insufficienza di prove) e condannato a 5 anni per occultamento di cadavere.

Una doppia esecuzione pianificata dalla coppia, con la collaborazione di un 17enne (condannato a 28 anni dalla giustizia minorile). Monica Sanchi, che collocava Sadik nella casa dove fu ucciso Mannina, non è stata creduta dai giudici. La tragica vicenda, arrivata a sentenda dopo più di otto ore di camera di consiglio, ha una prima verità processuale.

Dritan “deve” vendicarsi di Lidia che l’ha tradita con un cugino, durante un soggiorno in Albania. Un’onta da lavare col sangue. Lei, per sfuggirgli, va in Lombardia dai parenti, lasciandogli temporaneamente i figli. Dritan non sa come rintracciarla.

Lui escogita così un piano diabolico per arrivare fino a lei. In una sala Bingo conosce Monica Sanchi. Si mette con lei e, accampando la necessità dei figli di riabbracciare la madre, nel giro di pochi giorni la convince a spiare le tracce della vita virtuale della sua ex su Facebook. Una specie di gioco che contribuisce ad unirli e ad accrescere la loro affettuosa complicità. I due, così facendo, risalgono a Silvio Mannina. Il giovane ha frequentato Lidia per un paio di mesi, la storia è già finita, ma sul suo profilo risulta “fidanzato”.

Monica adesca l’uomo sul social-network, si finge disponibile, pronta a incontrarlo a Rimini per una notte di sesso. Lui cade in trappola: è il 28 febbraio 2014. Al suo arrivo viene “accompagnato” dalla donna nell’appartamento di Dritan. Qui trova due uomini (Dritan e il minore) ad attenderlo. Armati di una sciabola e di una mazza da baseball. Demiraj, ex pugile, lo stende con un cazzotto. Poi lo spogliano e, dopo averlo obbligato a fissare al telefono, a voce, un appuntamento con Lidia per l’indomani, gli tolgono il telefonino e cominciano a seviziarlo. Dritan scopre un’immagine di Lidia in reggiseno, lo interroga sulla natura e sui dettagli dei loro rapporti intimi, infine Silvio dopo altre torture viene imbavagliato e ucciso crudelmente. Dritan afferra il cavo dell’antenna del televisore e lo gira attorno al collo. Dell’ostaggio. Un capo lo tira il connazionale 17enne. Secondo il racconto di Monica Sanchi lo zio è presente e gli tiene ferme le gambe (ma non ci sono riscontri sufficienti). Dopo qualche minuto il cavo si spezza. Sivio perde sangue, ma non è morto. Dritan riavvolge il cavo attorno al collo e con l’aiuto del ragazzo riprende a stringere. “E’ forte”. “Sì, non muore mai”, commentano. Alla fine, per essere sicuri, gli mettono un sacchetto al collo. Ora sanno dove si trova Lidia, e hanno appuntamento con lei per l’indomani. Sarà ammazzata anche lei, ma perché il piano sia perfetto devono fare sparire il corpo, in maniera che la colpa ricadrà su Silvio. Quella stessa sera, nella spettrale cornice notturna delle acque paludose dell’area di una cava abbandonata, con l’aiuto dello zio, seppelliscono il cadavere avvolto in un lenzuolo. Il giorno dopo, 1 marzo, Dritan e Monica partono con l’auto dello zio per la Lombardia. Con loro c’è anche il giovane albanese. In Albania farà sapere a tutti che l’onore è salvo, che Dritan ha fatto la cosa giusta. Prima, però, accompagnano i bambini a scuola. Fanno tappa da una minorenne spasimante di Dritan per un saluto. L’appuntamento con Lidia è nel tardo pomeriggio nel parcheggio di Milano Malpensa. Lei non si presenta. Allora c’è uno scambio di messaggi. Dall’altra parte ci sono Dritan e Monica (è la donna che scrive), ma lei non può immaginarlo. Eppure la vittima predestinata sembra riluttante, forse addirittura diffidente. Tramite sms chiede di parlare direttamente con quello che crede essere Silvio. E’ Monica a rassicurarla su whatsapp. Digita che il microfono non funziona e che possono comunicare solo per iscritto. Di fronte alle insistenze, Lidia si rassegna e dopo aver spostato ancora un paio di volte l’appuntamento accetta l’incontro, di sera, ma a due passi dall’abitazione dove si era appena stabilita. «Facciamo alla stazione di Mozzate». Nel sottopassaggio troverà Dritan, armato di coltello. Per fortuna c’è una telecamera che, nonostante l’ombrello aperto, lo inquadra di sfuggita e solo di profilo: tanto basta ai carabinieri. Il tentativo di far ricadere la colpa su Mannina fallisce. Gli assassini si ritroveranno a dover ammettere le loro responsabilità (lo zio si è sempre professato innocente). Mai una confessione completa che spieghi tutto. Il racconto di Monica apre degli squarci di verità: per la collaborazione evita l’ergastolo. Le ammissioni arrivano solo davanti a prove schiaccianti. I due omicidi sono legati; per la difesa il tradimento va considerata una provocazione, specie per un uomo legato a una certa cultura. Un’aberrazione, secondo le parti civili (per la madre di Mannina l’avvocato Alessandro Buzzoni) che fanno riferimento anche alla convenzione di Istanbul per negare qualsiasi attenuante culturale al femminicidio. Lo zio però non c’entra. In appello se ne riparlerà.

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