Spariscono i soldi dopo la perquisizione: indagati tre agenti della municipale

Rimini

RIMINI. Tre agenti del nucleo ambientale della polizia municipale di Rimini sono indagati con l’accusa di peculato. Il sospetto, ancora tutto da verificare, è che si siano appropriati dei soldi recuperati nel corso di una perquisizione nell’abitazione di uno spacciatore. Per chiarire la vicenda, su ordine della procura, la guardia di finanza ha perquisito nei giorni scorsi gli uffici del Comando della Municipale di Rimini, in via della Gazzella, e gli appartamenti dove abitano i vigili, autori del controllo. Nessuno tra gli oggetti descritti dalla donna (effetti personali, appunti e materiale elettronico) è stato ritrovato nelle case degli agenti. I tre coinvolti, difesi dall’avvocato Marco Ditroia, respingono l’addebito in maniera categorica. Si è trattato di una svista, di una errata trascrizione del verbale, di un conteggio sbagliato o c’è davvero dell’altro? Va detto che per adesso quella del peculato è semplicemente un’ipotesi investigativa, tutta da dimostrare. Gli accertamenti servono, intanto, a spazzare via i dubbi sull’operato dei pubblici ufficiali.

Tutto comincia il 9 gennaio scorso quando gli agenti della Municipale perquisiscono l’appartamento dove vive un trentaduenne albanese con la fidanzata. La “soffiata” di un informatore è buona, i vigili scovano la droga, nascosta nell’aspirapolvere: 16,5 grammi di cocaina e poco più di 4 di marijuana. In una valigetta metallica, invece, trovano 6.600 euro in contanti. I soldi, ritenuti provento dell’attività di spaccio, vengono sequestrati. Nel verbale si dà atto anche del ritrovamento di altri 1400 euro. Il denaro stavolta, sempre in contanti, era nella borsa della fidanzata, appoggiata sul sedile dell’auto della coppia. «E’ il mio stipendio», ripete più volte la donna disperata, mostrando la busta paga. Lei con la droga non c’entra, è ignara di tutto. Quei soldi sono effettivamente suoi: le vengono restituiti. O almeno è quello che risulta a verbale. Mentre lei segue il suo uomo in caserma, nell’abitazione restano alcuni agenti per concludere le solite incombenze. Qualche ora dopo il trentaduenne viene accompagnato in carcere e la fidanzata torna a casa. Il denaro, però, non è più al suo posto. Lei non si preoccupa. Forse ha capito male. Non conosce la legge, non ha mai avuto a che fare con le forze dell’ordine. La mattina dopo il giudice convalida l’arresto, ma dispone i domiciliari. Quando la coppia si ritrova da sola in casa viene a galla la storia dei soldi mancanti. I due s’interrogano sul da farsi, ne discutono. Non immaginano che nella stanza ci siano delle microspie, piazzate per indagare sulla droga. Non immaginano che ci sia qualcuno che intercetta le loro conversazioni. «Ci sarà un equivoco», concludono sia loro sia i vigili all’ascolto. Il pm Davide Ercolani, per fugare ogni sospetto, decide di fare chiarezza e si rivolge ai finanzieri del Nucleo di polizia tributaria. L’argomento torna fuori, ai margini dell’udienza, quando l’albanese si ripresenta davanti al giudice: se la cava con la messa alla prova. La fidanzata, che non ha sporto denuncia, ritiene arrivato il momento buono per reclamare il suo stipendio. Non ha motivo di pensare male: c’è chi la rassicura. Attraverso l’avvocato fa una banale istanza di restituzione all’autorità giudiziaria. Due righe di “routine” che però provocano un terremoto: qualcosa non torna. I 1400 euro risultano già restituiti. E gli altri oggetti mancanti? La finanza, con grande discrezione, convoca in caserma sia lei sia il ragazzo albanese (viene ascoltato anche un vicino di casa). Alla fine viene disposta la perquisizione. E le fiamme gialle bussano alla porta della polizia municipale.

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