Il giudice conferma il licenziamento dell'infermiera

Rimini

RAVENNA. “Scagionata” dall’addebito relativo al presunto furto di 10 euro dal portafoglio del marito di una degente - fatto contestato «tardivamente dall’Ausl» e di cui «non esiste prova certa» - Daniela Poggiali paga con la perdita del posto gli scatti choc che la ritraggono in pose irriverenti accanto ad una paziente appena deceduta.

Dopo alcuni giorni di riflessione, il giudice del lavoro Roberto Riverso ha sciolto la riserva respingendo il ricorso presentato dall’infermiera 42enne, in carcere dall’ottobre scorso con l’accusa di avere ucciso una degente con una iniezione letale di potassio e sospettata per la scia di morti anomale avvenute all’ospedale Umberto I di Lugo dove lavorava.

Ad avviso del magistrato «l’episodio, nella sua abnormità, si connota come banale, nel senso della banalità del male». Una citazione colta che fa riferimento all’omonimo libro di Hannah Arendt, inviata del New Yorker a Gerusalemme che seguì le 120 sedute del processo Eichmann poi condannato per crimini nazisti. In quel volume la Arendt analizza le modalità con cui il pensiero può evitare le azioni malvagie, attraverso la capacità di distinguere tra giusto e sbagliato.

Ad avviso del giudice non importa chi, tra la Poggiali e la collega che materialmente ha scattato quelle immagini (a sua volta licenziata dall’Ausl), abbia avuto l’iniziativa di farle. E a nulla rileva il fatto se vi sia stata preordinazione, il dolo o il vilipendio di cadavere o se si sia trattato, come il magistrato suppone, di un gesto spontaneo. Così come non incidono sul giudizio le morti sospette su cui indaga la Procura, gli episodi anomali, la personalità della Poggiali e le voci sul clima che si respirava all’interno dell’ospedale. Tutti aspetti che restano sullo sfondo ma che non rilevano sul verdetto.

Per Riverso, infatti, bastano quegli scatti. «Qui non c’è niente da valutare - sottolinea in uno dei passaggi con cui motiva il rigetto del ricorso presentato dal difensore dell’infermiera, l’avvocato Stefano Dalla Valle -. Si è semplicemente senza parole perché quei due click assorbono ogni altra valutazione di contesto».

Ad avviso del giudice del lavoro inquieta il fatto che quelle foto siano state fatte «per gioco, superficialità, per ingannare il tempo ovvero per quella mancanza di pensiero che annulla la distanza tra giusto e sbagliato ed elimina la facoltà di discernimento e le implicazioni morali sottese al principio di responsabilità». Un fatto che, in sé e per sé, denota per il giudice la mancanza di idoneità a svolgere la mansione affidatale e che a suo avviso legittima il licenziamento per giusta causa. Troppi gravi quegli scatti in cui l’infermiera appare con smorfie irriguardose e sorrisi inopportuni, così come i commenti che li accompagnano. «L’irrisione della persona deceduta da parte di un’infermiera - sentenzia il giudice - vale la pedofilia del sacerdote, la sentenza venduta del giudice, il medico che specula sulla salute del paziente, la maestra che abusa dell’infante, l’imprenditore che ride su un terremoto, il politico che patteggia con un mafioso, l’avvocato che tradisce il proprio cliente, lo sportivo che bara».

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