Morto dopo trasfusione infetta, il tribunale gli nega il risarcimento

Rimini

RAVENNA. Quasi dieci anni di lotte e agonia, poi la morte, dopo una trasfusione di sangue infetto: dopo anni di attesa, una sentenza del tribunale di Bologna, nelle scorse settimane, gli ha negato di fatto il risarcimento per un cavillo tecnico. Sconvolta la famiglia che ora pensa al ricorso in appello. «Sentenza assurda, ma in ogni modo nessuno ci ridarà nostro padre».

La “beffa”. Era da 11 anni che la famiglia di Concordio Lonardo attendeva la pronuncia del tribunale di Bologna al quale avevano presentato causa civile contro il ministero alla salute. La sentenza è arrivata a giugno e dà però torto ai figli del 60enne ravennate che si infettò nell’’88 e morì nove anni più tardi. Alla base, una questione meramente tecnica che lo studio legale bolognese (che rappresenta, per casi simili, gli interessi di diverse famiglie romagnole, tra cui proprio i Lonardo) spiegherà nel dettaglio più avanti, quando saranno maturi i termini per il ricorso in appello. Ma, motivazioni o meno, la sostanza cambia poco. Dopo 10 anni di lotte legali e altri 11 di attesa, il ministero alla salute non dovrà riconoscere quel risarcimento. Non per il momento, almeno.

Concordio, e quella “sacca maledetta”. E pensare che la storia era già triste di per sé, senza l’ultima “beffa”. Concordio era ammalato di talassemia e, per questo, costretto a trasfusioni continue. Fu una di queste, quando aveva da poco compiuto 50 anni, che lo segnò per sempre: era il 1988. Tre anni più tardi, nel ’91, i medici gli diagnosticarono l’epatite C, la sua condanna a morte. Morì nel ’97, lasciando tre figli una dei quali ancora adolescente. Il risarcimento al quale avrebbe dovuto avere diritto, secondo il governo Prodi, fu cancellato dall’Esecutivo Monti. Ma già nel 2003, la famiglia intentò causa di fronte al tribunale di Bologna contro il ministero alla salute per ottenere il risarcimento, chiedendo l’accesso alla transazione ancora quattro anni fa ma per la risposta hanno dovuto attendere fino a giugno scorso, quando il giudice ha dato loro torto.

I soldi, quando mai. Alla sua morte, Concordio lasciò tre figli. Sono loro a portare avanti la battaglia legale di quel padre che faceva il bidello in un istituto alberghiero e che solo grazie alle sue insistenze, appena sei mesi prima del decesso, riuscì a ottenere un indennizzo, quel primo riconoscimento legale che fosse stata proprio la sacca infetta a farlo ammalare. Eppure, oltre il danno la beffa: con la sua morte, l’indennizzo venne bloccato. Solo dopo le telefonate continue, e l’interessamento dei figli, due anni più tardi quella pensione venne tramutata in un indennizzo per la madre, 150 milioni di lire con le quali lo Stato pensò di aver saldato il suo debito.

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