"Troppo stress lavorando in clinica". A processo presidente del Maria Cecilia di Cotignola

RAVENNA. Stressata dal lavoro, al punto da ammalarsi ed non riuscire a svolgere nessuna occupazione per quasi un anno. Molto più di una semplice antipatia quella lamentata da una dipendente del “Maria Cecilia Hospital” di Cotignola. Piuttosto un clima lavorativo teso al punto da farla ammalare di “disturbo dell’adattamento”. Per quella patologia riconosciuta come malattia professionale nel 2016 è finito a processo il presidente della struttura sanitaria, accusato di non avere valutato correttamente il rischio di stress lavoro correlato.

Le accuse

I problemi - secondo l’accusa rappresentata ieri in aula dal sostituto procuratore Silvia Ziniti - erano iniziati fin dal febbraio 2014, con i sintomi che nell’agosto di due anni più tardi sarebbero confluiti in una diagnosi psicologica ben precisa, elaborata dal centro di neuropsicologia professionale di Milano: “Disturbi emotivi misti quale reazione a stress lavorativo, anamnesticamente correlato alla persistenza di un clima interpersonale vincolante, penalizzante, critico, ipercontrollante e mai collaborativo, il tutto esitato in netto svilimento del ruolo e delle competenze acquisite e in assenza di supporto sociale”. Problemi di salute che la dipendente imputava all’egemonia esercitata dalla superiore.
Ma non è alla dirigente che la Procura ha indirizzato le accuse. Piuttosto, secondo il capo d’imputazione, i vertici della società “Maria Cecilia Hospital” avrebbero dovuto adeguarsi alle norme in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali. In particolare, i due documenti sulla valutazione del rischio, sarebbero stati compilati senza consultare i rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza, e nemmeno i dipendenti stessi, così come anche le segnalazioni del personale sarebbero cadute nel vuoto.

La testimonianza

A riferire il disagio vissuto, ieri davanti al giudice monocratico Beatrice Marini, è stata la parte offesa (tutelata dall’avvocato Alessandra Cavina). Ha ripercorso su domanda del pm i problemi vissuti con la superiore, il malessere, la scarsa considerazione e anche l’emarginazione di colleghi che a fatica le rivolgevano la parola. Il tutto in una cornice gravata da una situazione familiare che - ha ammesso - aveva inciso sulla sua serenità.
Poi la parola è toccata ai difensori del presidente della clinica. L’avvocato Giovanni Scudellari ha insistito sui 10 punti di criticità che compongono le linee guida per la diagnosi di malattie professionali legate allo stress. Richieste che mirate a cercare nel vissuto della dipendente eventuali episodi che circostanziassero quanto più genericamente lamentato in sede di denuncia, che hanno costretto la parte offesa a parlare per oltre una quarantina di minuti. Un ulteriore approdo difensivo è stato trovato sul fronte Inail, in particolare sulla decisione di respingere la domanda per il riconoscimento della malattia professionale.
Poi è stata la volta del collega, l’avvocato Lorenzo Marangoni, del foro di Milano, che ha orientato invece le domande sul rapporto travagliato con la coordinatrice.

La Medicina del Lavoro

A chiudere le testimonianze è stata quindi la deposizione di un funzionario della Medicina del Lavoro, che all’epoca dei fatti partecipò alle indagini. Il quale, oltre a ricostruire i rapporti tra i dipendenti, ha fornito anche un quadro sul curriculum professionale dell’imputato, del quale i difensori puntano a fare emergere l’esperienza di dirigenza in una quarantina di strutture sparse in Italia e all’estero. A completare il quadro saranno altri tre testi, chiamati in aula nella prossima udienza fissata a metà settembre.

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